La guerra dei nerd
Da qualche mese la figura del nerd sembra essere prepotentemente tornata al centro del confronto pubblico, culturale o politico che sia, e qualunque significato si voglia dare al termine: in origine, designava con disprezzo i secchioni socialmente inadatti, bersagli dello scherno dei giovani atletici integrati, i jock (vedi Benjamin Nugent, Storia naturale del nerd). Negli ultimi trent’anni però, lo stesso termine è passato attraverso le fasi della rivendicazione orgogliosa e dell’appropriazione indebita, per poi tornare recentemente ad assumere una connotazione dispregiativa: in particolare, è stato usato per descrivere i maschi bianchi dell’Alt-Right statunitense, in special modo in riferimento al sessismo diffuso – o addirittura dominante – nelle comunità gamer. È un legame che a molti nerd italiani della «vecchia scuola» suonerà forse male; ma probabilmente stoneranno meno altre connessioni, legate a esperienze populiste e postideologiche nate proprio da noi.
La cosa curiosa è che nessuno sa cosa sia esattamente un nerd: ci si dovrebbe districare nella rete delle contrapposizioni sociali statunitensi e nel modo in cui queste sono cambiate negli ultimi cento anni, porsi domande circa la possibilità di individuare e definire un nerd fuori da quello specifico contesto, chiedersi quali sono le immagini del nerd che l’industria culturale ha prodotto, quali sono veritiere e quali hanno finito per esserlo condizionando gli individui, quali immagini non ritraggono il nerd ma figure nel cui sentire e nei cui valori il nerd si riconosce, e questo sia al cuore dell’impero sia nelle sue province: è un bel casino.
Quello che è certo è che siamo a una svolta percettiva che va in una direzione diversa da quella che storicamente è stata l’esperienza nerd italiana: esperienza di cui per giunta non esistono storia né sociologia, ma solo autocertificazioni, impressioni, ricordi individuali in cui magari il vocabolo «nerd» nemmeno compare mai. In ogni caso, questo vocabolo lo userò per comodità, circoscrivendo un tipo di attitudine che pure è reale, esiste. E fermo restando che i termini si usano finché servono (e che non c’è niente di male a buttarli via se diventano inutilizzabili), intendo porre una domanda: c’è qualcosa di questa esperienza che può e dovrebbe essere salvato?
Prima di tutto occorre comprendere cosa abbiamo inteso con «nerd» in Italia fino all’altroieri. Tradizionalmente, la nostra nozione del termine ha fatto riferimento ai tre significati principali che questo ha assunto nella cultura statunitense nel corso di altrettanti stadi che potremmo definire classici: al nerd come secchione socialmente fallito (primo stadio) è seguito il nerd come smanettone informatico, visto come persona isolata che interagisce solo con le macchine (secondo stadio); infine ci si è riferiti con «nerd» anche ai frequentatori di tutto un universo subculturale di genere – fantasy, sci-fi, letterario, cinematografico, fumettistico, videoludico – che almeno in passato era considerato «roba da ragazzini» e connotava negativamente gli adulti che lo frequentassero (terzo stadio). La rivalutazione che il termine ha conosciuto in questi anni passa proprio dallo sdoganamento degli oggetti culturali di riferimento – dall’informatica al fantasy – che contraddistinguevano i nerd nella seconda e nella terza accezione.
Di solito la questione è semplice, pragmatica: il significato di una parola in un dato momento storico corrisponde al modo in cui è usata in quel momento storico. Il problema, con «nerd», è che tutte e tre le accezioni sembrano oggi convivere, e che ognuna delle prime due esclude individui che le altre sembrano includere – la prima esclude i socialmente dotati, la seconda i non informatici. Di fatto le tre accezioni di «nerd» sono talmente distanti da trasformare la questione in un caso di omonimia; ma, ovviamente, le credenze sedimentate attorno all’uno o all’altro significato finiscono poi per legarsi al vocabolo stesso, con il risultato che a un certo punto non si sa più di cosa si sta parlando.
Per esempio, è probabile che dall’accezione informatica di nerd discenda il luogo comune secondo il quale i nerd avrebbero conquistato il mondo: tutti dipendiamo da ciò che accade a Silicon Valley. Lo stesso luogo comune, però, viene poi tirato in ballo in riferimento all’accezione di nerd come cultore di opere d’immaginazione legate al fantastico; e benché possa essere vero che il fantastico ha conquistato oggi una posizione importante (se non addirittura egemonica) nell’industria dell’intrattenimento, ciò non significa di per sé che siano i nerd ad averla conquistata, né significa che il modo in cui quelle opere sono fruite dal pubblico generale sia il «modo nerd» di fruire quelle opere.
Che i nerd dominino il mondo, infine, appare come un’affermazione semplicemente delirante se associata alla prima e storica accezione del termine, quella di individuo socialmente incapace: perché un individuo socialmente incapace è anche un individuo incapace di emergere, specialmente in quelle culture in cui le competenze sociali valgono quanto o più di quelle tecniche (e se domandate a un nerd quali siano queste culture, vi risponderà: tutte). Stanti queste difficoltà, appare comprensibile il tentativo di usare l’espressione geek come alternativa a nerd, senza che con ciò si arrivi a stabilire quale dei due termini debba definire cosa: il freak strettamente informatico, il monomaniaco, l’informatico vincente, l’appassionato di oggetti subculturali che però è dotato di capacità sociali o solo quello che non ne è dotato… Tutto questo nel tentativo di tracciare una difficile ma ragionevole linea di confine tra Zuckerberg e il topo da ludoteca. Quello che invece proveremo a fare qui è delineare, seppure in modo rudimentale, un nucleo semantico che connetta l’accezione informatica di «nerd» non solo a quella umanistica, ma persino all’incapacità sociale.
Fanatismo nostalgico vs Tecnicismo antimagico
Da un po’ gira su Facebook una pagina che vende magliette con eroi di manga e anime degli anni Settanta corredati dalla didascalia «80s». Il perché è chiaro: per la maggior parte degli italiani, sono gli anni Ottanta ad essere stati contraddistinti dai primi cartoni giapponesi importati. Se ne evince che le opere non sono importanti per se stesse, ma perché ci riportano indietro nelle nostre vite. Questo atteggiamento mentale può comportare varie forme di feticismo, come culti di doppiatori storici e di cristine d’avene varie.
Il fenomeno è vasto: su Facebook fioriscono pagine esplicitamente dedicate alla nostalgia, e alcune arrivano ad abbracciare la tv italiana degli anni Settanta e Ottanta nella sua totalità. Qui prenderemo a esempio il nostalgismo nei confronti dei vecchi anime non solo perché è quello che conosco meglio, ma anche perché è quello più diffuso (come scrisse un noto nerd italiano: «i vecchi cartoni animati giapponesi sono l’unica cultura condivisa della nostra generazione») e perché proprio gli anime sono un classico patrimonio del nerdom.
Il nostalgismo è un tentativo di riprodurre lo stato mentale dell’infanzia. Il rapporto con gli oggetti culturali di riferimento è preanalitico, se non antianalitico tout-court: gli oggetti culturali in effetti non solo non vengono indagati, ma spesso non devono essere indagati, pena la perdita della suggestione infantile; l’estasi viene con le note della sigla italiana storica di un cartone, dal grido «alabarda spaziale»; le immagini diventano icone, nel senso religioso del termine. L’interesse reale è escluso perché scopre nuove informazioni, distrugge la rievocazione, desacralizza l’oggetto e cancella la suggestione ipnotica del sostantivo: il nostalgismo rifugge il discorso sul suo oggetto culturale di riferimento perché una volta che il sostantivo dovesse entrare in una frase si passerebbe dal prelogico al logico, e la magia svanirebbe.
Il risultato di questa mancanza di interesse reale, è che il nostalgismo mescola tutto in modo approssimativo: spesso non conosce i confini e le differenze tra i suoi oggetti e lascia che si sovrappongano nel marasma della memoria. Il nostalgismo è insieme superficiale – cioè estemporaneo – e fanatico: fanatico nell’intensità della suggestione magica, ma superficiale ed estemporaneo nei confronti del prodotto culturale di riferimento.
Ma se parliamo di nostalgia è bene comunque fare distinzioni. In rete esiste da anni un gioco della rievocazione strettamente nerd, smart e ironico. Il blog (e relativa pagina Facebook) L’antro atomico del Dr. Manhattan ne è l’esempio principale: a tre decenni di distanza dagli anni Ottanta, i nerd hanno la possibilità di commemorare l’epoca che ha portato la fantascienza nel pop e i computer nelle case. Sui social network, però, il nostalgismo «classico» entra in contatto con le pagine dedicate alla subcultura nerd, ed è qui che i rispettivi pubblici finiscono per sovrapporsi, almeno in parte. Il motivo è semplice: quello che una volta era l’immaginario nerd oggi riporta indietro un po’ tutti, come è evidente se guardiamo al continuum che va da Kung Fusion a Turbo Kid passando per Stranger Things.
La curiosità del nerd si manifesta come interesse nei confronti dell’aspetto tecnico dei suoi prodotti di riferimento.
Eppure, malgrado questa promiscuità, la melassa kitsch del nostalgismo e il gioco nerd della rievocazione sono due fenomeni radicalmente differenti. Innanzitutto perché l’ironia nerd disinnesca la tentazione magica e sacrale, e questo già delinea un atteggiamento completamente diverso nel rapporto con i contenuti. Ma soprattutto perché «nerd» denota una forma mentis diametralmente opposta a quella nostalgica: dopotutto i nerd hanno sempre vissuto con difficoltà il fatto che i propri oggetti culturali di riferimento fossero visti dai più come prodotti per l’infanzia; e poi c’è il fatto che il nerd è curioso. Meglio ancora: è analitico.
La curiosità del nerd si manifesta come interesse nei confronti dell’aspetto tecnico dei suoi prodotti di riferimento: c’è il gusto per l’immateriale e per la logica, c’è il desiderio di smontare e rimontare concettualmente (e spesso concretamente) che si esprime nelle competenze enciclopediche, nell’indagine delle condizioni di produzione delle opere, nell’attitudine artigianale, talvolta nella fan-fiction e nella fan-art. La differenza con il nostalgismo è proprio questa acquisizione di competenza: per il nerd si tratta sempre di conoscere una tassonomia, di comprendere e padroneggiare un funzionamento, in molti casi riprodurlo, variarlo, migliorarlo.
Queste pratiche distinguono la forma mentis nerd non solo dalla sacralizzazione iconica del nostalgismo, ma anche dalle suggestioni taumaturgiche del classismo accademico della «cultura come status» e del protagonismo dell’Autore. Detta altrimenti: al centro della mentalità nerd non c’è l’autore: c’è l’opera. In definitiva, il nerdom è distante da qualsiasi forma di venerazione magica: quella del sostantivo del nostalgismo e quella dell’Autore come «artista ispirato».
Il tecnicismo nerd, però, non deve essere scambiato per «senso pratico»; in fondo, per decenni il problema dei nerd è stata l’altissima competenza in campi marginali del sapere: la sua era una preparazione forte ma impopolare, e spesso invendibile («socialmente inadatto», si diceva). La stessa fascinazione per i computer è sempre «originaria»: il nerd informatico non nasce perché è furbo e individua un modo di fare soldi; il nerd informatico nasce per amore.
Ciò che non torna nella lettura che per esempio viene data del legame tra nerdom videoludico e Alt-Right, è che il nerd informatico «di vecchia scuola» non nasce perché è un cazzone misogino senza relazioni; piuttosto, non ha relazioni perché ha una passione. Questo è il tratto di maggior distinzione tra una vecchia scuola che non chiamava se stessa nerdom, e la nuova scena nichilista descritta in profondità da Alessandro Lolli nel fondamentale La guerra dei meme. Agli occhi della vecchia generazione, gli alienati identificati oggi come nerd sembrano geneticamente modificati, creati altrove, invasati da demoni sconosciuti, distanti più dei nostalgici.
Restiamo quindi sulla vecchia scuola, e proviamo a ripartire da lì. Posto il tema dell’atteggiamento analitico e sgombrato il campo dagli equivoci nostalgici, possiamo cercare di capire cosa hanno in comune i diversi significati di «nerd».
Il nerd tratta mondi mentali e immaginari condivisi con la massima serietà, li prende per buoni e ne individua articolazioni inedite, ne completa la costruzione.
Un quesito come «è più forte Hulk o la Cosa?» è un perfetto esempio di domanda che qualifica il nerd nella terza accezione del termine. È una domanda che ha come premessa l’esistenza di un dato mondo immateriale nonché l’accettazione delle regole di quel mondo. Domandarsi per esempio se sia più forte Superman (un personaggio DC) o Thor (un personaggio Marvel) non sarebbe vietato, ma leggermente meno legittimo: perché implicherebbe mettere da parte il fatto che l’universo DC e l’universo Marvel sono due mondi diversi, alternativi, separati. Il nerd tratta mondi mentali e immaginari condivisi con la massima serietà, li prende per buoni e ne individua articolazioni inedite, ne completa la costruzione: qualcosa di molto simile al modo in cui funzionano la scienza e la narrativa, che sono i due campi cui appartengono gli oggetti culturali di riferimento dei nerd nella seconda e nella terza accezione. Questo non significa che il nerd non sappia distinguere tra scienza e fantascienza, o tra reale e immaginario: se fosse così, non sarebbe un tecnico. Significa solo che nel suo mondo mentale le due componenti sono in continua dialettica; significa che nel nerd, a scorrere potente è la forza delle ipotesi.
Se quindi qualcuno fosse così pazzo da azzardare una definizione di nerd, gli consiglierei di prendere le mosse proprio da questa appropriazione libera ma rispettosa, da questo attivo trasformare la materia che mette insieme la programmazione informatica e i mondi alternativi, che passa attraverso la fascinazione per l’ipotesi, il what if, l’indovinello e la soluzione, la scoperta della stanza nascosta, lo schema, la disgiunzione logica, e che in definitiva tende sempre ad ampliare i confini del nostro mondo, a spostare l’orizzonte narrativo e conoscitivo più in là di dove lo vorrebbero il buon senso e la cultura condivisa.
A questo punto possiamo tornare alla questione del termine «nerd» assumendolo nella sua prima accezione: quella che designa l’incapace sociale. La vocazione a prendere sul serio l’immaginario e il possibile non può che entrare in collisione sia con quello pseudopragmatismo che attribuisce status di sciocchezza a tutto ciò che non rientra nel suo immediato e ristretto campo visivo (per quanto ancroa dobbiamo sentire battute sul campo di Holly e Benji?), sia con qualsiasi atteggiamento che precluda l’appropriazione libera in nome di una qualche autorità che non sia l’immaginario stesso: tutto ciò che è riferimento al peso dello status personale o alla sacralità dell’opera – o alla sacralità dello status personale – sparisce. Difficile stabilire se nasca prima il rifiuto del riferimento personale o l’inettitudine nei rapporti, ma sta di fatto che la timidezza nerd evapora quando il nerd può saltare l’aspetto convenzionale delle discussioni, i doppi sensi, il linguaggio del corpo, e passare direttamente all’aspetto tecnico dei contenuti (addirittura Nugent, riconduce la nerdiness allo spettro dell’autismo).
Il fatto che il nerd sia refrattario a tutto ciò che non si basa sulla mera logica dei contenuti – se non sulla logica in sé, che nella scala dei candidati al ruolo di linguaggio universale non si piazza malissimo – e dunque che la mentalità nerd sia strutturalmente sorda all’argomentum ad hominem, è la risorsa politica fondamentale di cui la cultura nerd dispone. Ma questa forma mentis qualche controindicazione ce l’ha. Il tecnicismo può indurre a concentrarsi sulla mera capacità che una struttura ha di funzionare, senza che i valori sui quali poggia siano messi in discussione; può quindi diventare ragione strumentale, rifiuto di esaminare l’orizzonte narrativo-ideologico complessivo. E malgrado questo problema possa sembrare connesso al solo nerdom informatico, nel quale l’orizzonte narrativo-ideologico è apparentemente fuori dal range delle competenze, probabilmente il pericolo maggiore si situa invece là dove l’orizzonte narrativo-ideologico è sovraccarico: è il problema dell’escapismo, la più grave malattia cui la subcultura nerd (specie nella sua terza accezione) è esposta.
La strategia escapista
Così come il tecnicismo votato al mero problem solving, anche l’escapismo tende a tradursi in post-ideologismo. In questo senso, è noto come l’escapismo sia una delle accuse principali rivolte agli appassionati di fantasy: ma se è assurdo pensare che il fantasy sia un genere intrinsecamente escapista, e se è ridicolo considerare gli appassionati di fantasy come una folla di disertori del reale, è vero però che nel nerdom almeno una forma di escapismo la si incontra. È però una forma che consiste non in una mera fuga dalla realtà, ma in un atteggiamento psicologico più complesso. Gli escapisti del nerdom non fuggono dal mondo reale per rifugiarsi in mondi immateriali; piuttosto, impoveriscono la cerniera di comunicazione tra immaginario e reale, con un risultato che è per certi versi simile a quello ottenuto dai nostalgici: e cioè la «mancanza di interesse», in questo caso per ciò che l’universo narrativo ha da dire sul nostro mondo.
L’impoverimento della cerniera non elimina la comunicazione tra mondi, ma la coglie in un’articolazione così generale da renderla innocua e politicamente adattabile a pressoché tutto: il bene contro il male, il tiranno e i ribelli, eccetera eccetera. Capita così di sentire il ritornello secondo il quale le storie «sono solo storie» e «servono a evadere», fornendo come prova proprio un’articolazione concettuale della storia talmente impoverita che, se la storia fosse davvero solo quella, non resterebbe che dare ragione all’escapista di turno.
Ciò che distingue questo escapismo da quello caricaturale dei cervelli in fuga dal reale, è proprio la vocazione tecnicista: una vocazione cioè che, se sul versante immaginario riduce i mondi narrativi a macchine che devono funzionare in termini di atti-tempi-azione, sul versante del mondo reale si risolve in una morale genericamente «pragmatica». Non è quindi rarissimo che un nerd introietti le visioni sociali più bieche, come fa chi ha imparato dolorosamente quali atteggiamenti e quale visione del mondo permettano la sopravvivenza.
La cerniera di comunicazione tra mondi narrativi e mondo reale è ovviamente l’allegoria, ovvero il modo in cui i mondi immateriali prendono posizioni in merito alla natura e alla morale del mondo reale. Credere che le storie siano «solo storie» è un fraintendimento grave, perché i grandi creatori di mondi, per partorire allegorie complesse e significanti – si tratti del Signore degli anelli* come di Evangelion – una visione del mondo, un’ideologia, ce l’avevano. E se sul piano dell’ideologia l’escapismo non fa che alimentare la tendenza post-ideologica già pericolosamente in nuce nel tecnicismo, sul piano della metafisica rischia di portare a un’incapacità di leggere le allegorie in quanto tali e liquidare ogni discorso astratto, simbolico, concettuale o spirituale con secche lapidi degne dell’UAAR.
Da cosa nasce l’escapismo come rifiuto di connettere universi narrativi e reale esterno? Probabilmente dal fatto che, leggendo l’allegoria come una mappa 1:1 del mondo reale, le storie possono entrare in conflitto o con i valori pragmatici adeguati a sopravvivere nel mondo reale, o con i valori della correttezza politica. Nel primo caso la sopravvivenza e l’imperio schiacciante del mondo reale impongono la separazione, e dunque l’escapismo; nel secondo caso – di cui è emblema perfetto lo spettro di atteggiamenti che è possibile avere rispetto alla questione politica in 300 di Miller – a dominare è la paura che indagare morale e ideologia veicolate da un’opera significhi compromettere il trasporto nella fruizione, o che addirittura questo imponga la scelta di rigettare l’opera tanto amata perché sconveniente o politicamente inaccettabile. È quindi per evitare la dissonanza cognitiva tra piacere e dovere che l’escapismo interviene: «sono solo storie». Perché è questo il senso di escapismo qui: una dinamica di evitamento della dissonanza cognitiva.
A questo punto andrebbe anche ricordato che in Italia, fino a qualche tempo fa (quando cioè i canali erano limitati e quasi tutti ufficiali), la principale paura era di vedere censurati i propri oggetti culturali di riferimento, se non di venire direttamente stigmatizzati per i propri gusti personali: pensiamo ai luoghi comuni su metal e satanismo, su Kenshiro e i sassi dal cavalcavia, su giochi di ruolo e suicidi. È anche da questo, oltre che dalla dissonanza cognitiva, che nasce il problema che parte del vecchio nerdom ha con il «politicamente corretto» e con tutto ciò che abbia l’aria di essere prescrittivo. Ne deriva una rivendicazione di «libertà totale» che si vorrebbe per sua natura anche immediatamente egualitaria. È però difficile distinguere questa presa di posizione dalla semplice pigrizia nell’affrontare un cambio di paradigma.
Prendiamo un film come Chasing Amy di Kevin Smith: è una riflessione sul maschio nerd incapace di accettare l’emancipazione femminile, ed è una dichiarazione di intenti sconfitti, certamente amara. Ma pone comunque un tema enorme: la necessità di superare una fase «apolitica» che però, proprio perché apolitica, si dimostra sempre politica nel senso più deteriore, involutivo e mummificante. E questo ci riporta all’attuale flirt tra nerdom e Alt-Right: perché se mai è stata possibile una «via nerd a sinistra», lo è proprio ora che il nerdom è chiamato a prendere le distanze dalle sue deviazioni fascistoidi.
Tecnicismo e ideologia post-ideologica
Fino a qualche anno fa avrei potuto affermare con una certa sicurezza che, per estrazione e principi di tolleranza, il nerdom avesse i tratti di una generica e docile sinistra piccolo-borghese, una sorta di anarchismo introspettivo, un’allergia ai patti sociali che si ritagliava i suoi spazi materiali o immaginari ai margini di una democrazia data per scontata.
In generale però, essere tecnicisti e libertari di sinistra assieme non è facile: al contrario, determina spesso un’impasse quando, nella risoluzione di un problema, si deve scegliere tra prendere il problema e isolarlo deideologizzandolo, o al contrario contestualizzarlo in un orizzonte ideologico che sempre rimane. E infatti i movimenti pirati, forse la forma più diretta di politicizzazione nerd, qualche cantonata l’hanno presa e qualche ambiguità post-ideologica l’hanno mostrata. Come si è già visto, il pericolo è che la vocazione tecnicista si esprima nell’accettare – se non sostenere – lo status quo, nel credere che i suoi problemi siano non strutturali ma accidentali, e che renderlo «pulito» equivalga a renderlo funzionante.
Questo accade perché è difficile separare concettualmente e logicamente la cultura pop e il progresso tecnologico dal capitalismo. Ma più spesso si tratta del risultato di un lungo e penoso processo di accettazione dello stato delle cose: perché il suo stile di vita culturale ha imposto al nerd una separazione netta tra utopie e mondo materiale. È in questa dinamica oscillante tra nausea e accettazione che si insedia il fastidio ambivalente che un certo tecnicismo nerd prova per le astrazioni filosofico-politiche, le quali possono essere percepite contemporaneamente come troppo pragmatiche (è il mondo malato degli adulti del Novecento) e troppo astratte (poco connesse al mero funzionamento delle spietate e spietatamente moderate meccaniche reali). Nessuno ha le prove, ma chi ha frequentato fumetterie e botteghe di computer come luoghi di aggregazione sa quanta difficoltà con le grandi narrazioni metafisiche e ideologiche sia stata coltivata dall’introiezione di uno pseudopragmatismo di ritorno, e assieme dalla necessità sociale di mostrarsi laici e consapevoli della pluralità, della relatività e in definitiva dell’insignificanza dei mondi altri, e, contestualmente o di contro, quanta accettazione della cultura liberista più o meno liberale derivi dal vedervi l’unica via alla libertà e al pop, all’assicurazione di avere possibilità di produrre e fruire oggetti culturali da un lato e una società solida nell’affermare i diritti civili, considerati transideologici, dall’altro.
Detto ciò, tutt’altro discorso è quello che associa nerd e Alt-Right, che a sua volta pare riferirsi a un nuovo tipo di nerd: distruttivo più che rassegnato, e modificato a tal punto da muoversi in branchi. Resta da vedere quanto possa essere considerato «nerd» qualcuno che, piuttosto che isolarsi per seguire una passione, si vendica perché è isolato. Siamo lontanissimi dal pacifico razionalismo che ha contraddistinto il temperamento nerd prima di questo decennio, ma se l’uso del termine dovesse prendere questa piega, non sarà un problema farne a meno: mica siam nostalgici, no?
Fondamentale sarà invece mantenerne il cuore semantico. E proprio in una chiave culturale e politica.
La forma mentis nerd come risorsa politica
È possibile ravvisare una valenza politica delle pratiche nerd che non si innesti su una radice post-ideologica, che non sia mera adozione del sistema delle élite e che faccia buon uso della vocazione tecnicista?
Dal romanzo La stanza profonda di Vanni Santoni, incentrato sul mondo dei giochi di ruolo, emerge un’equiparazione che pare ossimorica: il rifugio nell’immaginario come pratica politica. Quello de La stanza profonda, però, è un escapismo senza dissonanza cognitiva: non si chiude all’analisi, non si esime dal confrontare storie immateriali e mondo reale; semmai, si limita a prendere atto dell’impossibilità di una trasformazione della società che non abbia una dinamica mistica: se vuoi trasformare la società, ecco che non la trasformerai; se invece ti concentri su te stesso, sul tuo contesto, sui tuoi rapporti, la trasformerai. A essere rivendicata è la produzione di senso nelle cantine dei role player laddove è il cosiddetto mondo reale a non produrne più; ci si concentra cioè sull’emancipazione mentale e sulla libertà praticate nel qui-e-ora. Siamo a un passo dalla nerdiness come gnosi, ed è una posizione di tutto rispetto.
Alternative all’immediatismo di Santoni ce ne sono? Se pure non esiste un pensiero politico condiviso del nerdom, la forma mentis nerd descritta in precedenza incrocia due dei temi fondamentali e assolutamente politici dei tempi che viviamo: uno è il rapporto con le allegorie; l’altro è la centralità dell’opera, un problema particolarmente sensibile in un paese che soffre di una terrificante invasione del campo culturale da parte di star mediatiche la cui autorevolezza è basata sulle mere dinamiche dello spettacolo e le cui opere godono dello statuto di mere emanazioni.
Si tratta però di due temi che il nerdom attraversa in modo spontaneo e irriflessivo, e rispetto ai quali può presumibilmente scoprire di avere un ruolo importante solo nel momento in cui ne prende coscienza. Anzi, casomai si fosse in cerca di una pratica sulla base della quale rivendicare un orgoglio nerd e ridare senso al termine, la si troverebbe proprio su queste coordinate: nell’enciclopedia di visioni di mondi, da cui è possibile trarre letture e critiche dell’assetto reale; e nell’atteggiamento artigianale verso l’opera, nella desacralizzazione della figura dell’autore, in tutto quel bagaglio che nega i presupposti stessi della «cultura come status».
In Italia, l’unica mentalità a vocazione maggioritaria che sia conflittuale – ma non antagonista – rispetto a un’impostazione sacralizzata e conservatrice della cultura, è quella nazionalpopolare. Ma è un nazionalpopolare ormai geneticamente modificato dalla comicità berlusconiana, quella del fattela-una-risata e del rifiuto della complessità: un tipo di cultura quasi perfettamente jock. Al nazionalpopolare, una sana attitudine nerd vecchio stampo – con tutto il suo sfigatissimo prendere sul serio i mondi immaginari – non può che contrapporsi; con un po’ di fortuna, a questo nazionalpopolare (che è al giorno d’oggi pressoché nazipop), la nerdiness potrebbe opporre quantomeno un po’ di sano cagacazzismo.
Fuori dall’imperante bipolarità populismo vs élite, ciò che abbiamo chiamato «nerdiness della vecchia scuola» rappresenta insomma un reale antagonismo culturale fatto di centralità dell’opera, amore per le storie, vocazione tecnica, antinostalgia, internazionalità, attitudine alla complessità e alla traduzione metaforica tra mondi. Tutti tratti che tra l’altro ne confermano la natura popolare, democratica e antielitaria.
Proprio per questo è necessario porre attenzione alle contaminazioni e agli effetti collaterali della pervasività di quelle culture, soprattutto alla nocività di alcuni anticorpi: ad esempio quando, per contrapposizione a una cultura da salotto sentita come giustamente falsa e distante, il nerd introietta atteggiamenti jock (praticamente una forma di schizofrenia) confondendo la cultura griffata/sacralizzata con l’analisi tout-court. O al contrario, quando il «prendere sul serio» del nerd entra in conflitto con la stessa ironia nerd, rischiando di trasformarsi in sacralizzazione nostalgica degli oggetti di riferimento.
Rimettere al centro le storie, mantenere la vocazione tecnica e applicarla anche all’interpretazione e alla creazione delle allegorie, senza paura della mappa 1:1, senza paura di dover prendere posizione sulla vita reale e sul mondo reale, porre l’attenzione sull’opera e combattere il mito dell’autore, lottare per la dignità dell’immaginario: tutto ciò si può fare e andrebbe fatto. Se questa mentalità che ho rudemente delineato può essere chiamata nerd, e se la si riconosce in sé, se si trasforma in presa di coscienza, se si sciolgono le contraddizioni che la assediano, se la si rimette in movimento progressivo invece che ripiegarla verso un glorioso passato che non è mai stato glorioso, si vedrà che difficilmente i nerd hanno conquistato il mondo, ma che, come sempre, c’è il serio rischio che possano salvarlo.
* Sì, Tolkien detestava la categoria di allegoria per Il Signore degli Anelli, preferendole il concetto di applicabilità. Uso però «allegoria» in opposizione a «metafora», seguendo la lezione di Eco in Semiotica e filosofia del linguaggio: la metafora può essere decodificata solo se la si intende come metafora; l’allegoria è perfettamente autonoma sul piano diegetico, come lo è Il Signore degli Anelli, che infatti non prende posizione rispetto a un preciso evento storico e non pretende di dettare una linea. È altrettanto difficile però dire che Tolkien non avesse dei valori e che non abbia, per esempio, una sua personale visione del potere o del coraggio, visione che dall’opera traspare. In questo senso «allegoria» mi sembra ancora il termine migliore per descrivere il rapporto che i mondi altri intrattengono con il mondo reale.