Ken Liu è l’ingegnere-mago del fantasy

Intervista al padrino del Silkpunk: un tentativo di unire classici cinesi e antichi poemi europei per ri-mitologizzare la modernità

Ken Liu è un autore americano di speculative fiction. Ha vinto i premi Nebula, Hugo e World Fantasy. Il suo romanzo d’esordio, La Grazia dei Re (Mondadori, 2020), è il primo volume della saga epic fantasy silkpunk La Dinastia del Dente di Leone, in cui gli ingegneri vestono i panni dei maghi. Il secondo volume della serie, Il Muro di Tempeste, è da poco uscito in Italia

La sua prima antologia di racconti, The Paper Managerie and Other Stories, è stata pubblicata in più di dieci lingue diverse. In Italia alcuni suoi racconti sono apparsi in forma sparsa, inclusi perlopiù in Mono no Aware e altre storie (Future Fiction, 2015). La sua seconda antologia di racconti si intitola The Hidden Girl and Other Stories. È anche autore di un romanzo di Star Wars, The Legends of Luke Skywalker.

I suoi lavori sono stati adattati in vari media. I progetti più recenti riguardano The Message, in via di sviluppo per 12 Laps e FilmNation Entertainment; Good Hunting, adattato in un episodio della prima stagione di Love, Death + Robots, la serie Netflix; e Pantheon, una produzione AMC, ispirato a una serie di suoi racconti.

Prima di diventare uno scrittore a tempo pieno, Liu ha lavorato come programmatore informatico, avvocato e consulente giuridico. Interviene spesso in conferenze e università su vari argomenti, tra cui futurologia, criptovalute, storia della tecnologia, speculazioni finanziarie, futuri narrativi, e la matematica degli origami.

Liu vive con la famiglia nei pressi di Boston, Massachusetts.

In questa intervista dialoga con il suo traduttore italiano, Andrea Cassini.

Andrea Cassini: Certe volte, il fantasy tende a restare bloccato in una sorta di “Medioevo perenne”, dove la magia agisce da roccaforte del passato, anziché veicolo di progresso. Questo ha le sue ragioni, chiaramente, ma forse è una tendenza che rischia di alimentare quel pregiudizio secondo cui il fantasy sarebbe inevitabilmente conservatore, nostalgico, escapista, uno strumento per costruire mondi immensi ma chiusi. Quello che tu stai facendo nella Dinastia del Dente di Leone, invece, è molto simile a quanto fatto da Joe Abercrombie nella sua ultima trilogia, L’Età della Follia – non so se l’hai letta. Avete entrambi introdotto cambiamento e progresso, nel bene e nel male, in un raggio che va dalla politica alla scienza passando per la religione. Nella tua storia, come hai detto tu stesso, la tecnologia riveste il ruolo della magia, e come risultato il mondo di Dara mi appare eccezionalmente vivo e aperto, pieno di finestre che permettono al lettore (e forse anche all’autore) di saltare dentro e fuori. È a questo che si riferisce l’elemento “punk” di “silkpunk”?

Ken Liu: Penso che tu abbia centrato il punto. “L’unica costante è il cambiamento” non è solo una valida descrizione della nostra vita; è anche la stella polare dell’estetica della Dinastia. I miei libri parlano di cambiamento, evoluzione, rivoluzione, trasformazione – in altre parole, della grandezza dello spirito umano, che non può essere ridotta e cristallizzata in un’unica forma, ma può esprimersi solo tramite il movimento.

Approfitto dell’occasione per spiegare cosa significa “silkpunk”. “Silkpunk” è il termine che ho inventato per descrivere l’estetica tecnologica che volevo imprimere alla Dinastia, nonché il mio approccio letterario alla serie.

Sono stato influenzato dalle idee di W. Brian Arthur, che vedeva la tecnologia come un linguaggio. Il compito di un ingegnere è simile a quello di un poeta, nel senso che l’ingegnere deve combinare in maniera creativa componenti già esistenti per risolvere problemi inediti, realizzando artefatti che diventano a tutti gli effetti nuove espressioni di questo linguaggio tecnologico.

Nel mondo silkpunk dei miei romanzi, questa visione della tecnologia ha un ruolo dominante. Il vocabolario di questo linguaggio tecnologico poggia su materiali di importanza storica per i popoli dell’Estremo Oriente e delle isole del Pacifico: bambù, conchiglie, corallo, carta, seta, piume, tendini animali, ecc. La grammatica di tale linguaggio pone molta enfasi sulla biomimesi – le aeronavi si mantengono in volo ispirandosi alla vescica natatoria dei pesci, e i sottomarini si muovono in acqua come balene. Gli ingegneri sono celebrati come grandi artisti che trasformano il linguaggio corrente facendolo evolvere verso forme ancora più belle.

In quanto tecnologo io stesso, mi sono divertito moltissimo a ideare le tecnologie silkpunk dei libri: sottomarini, aeronavi, aquiloni da battaglia, logogrammi in cera, navi-città, automi elettrostatici… Molte di queste cose sono basate su precedenti storici, e ho eseguito calcoli ed esperimenti per assicurarmi che funzionassero davvero, al netto della diversa magnitudine delle forze coinvolte – penso che non si possa pretendere di più da un’ingegneria fantasy!

Allo stesso modo, anche il mio approccio letterario mescola e abbina elementi da diverse tradizioni letterarie globali che mi sono familiari. Ho volontariamente unito e combinato tòpoi e tecniche dai romanzi storici dell’Estremo Oriente e dalla narrativa epica europea. Il testo riflette quindi la medesima visione di poeta-ingegnere. Linguaggio, testo, tecnologia, filosofia, tradizione, vita: sono tutte cose definite dal cambiamento.

In questo senso, il suffisso “-punk”, come hai notato, non è un semplice vezzo. I romanzi silkpunk parlano di ribellione, resistenza, riappropriazione e rinnovamento della tradizione, sfida alle autorità: tutti capisaldi dell’estetica “punk”.

Un’ultima nota su quello che hai detto, a proposito di lasciare “finestre” per permettere al lettore di entrare e uscire dal testo: adoro questa immagine! Risuona con le mie idee sulla narrativa. Vorrei citare una parte della mia introduzione a The Hidden Girl and Other Stories, la più recente antologia di racconti:

In quanto autore io costruisco artefatti con le parole, ma le parole sono inutili finché non vengono animate dalla coscienza del lettore. Ogni storia è co-raccontata da autore e lettore, e ogni storia è incompleta finché non arriva un lettore a interpretarla.

Ciascun lettore approccia il testo con il proprio framework interpretativo, con la propria visione della realtà, un background narrativo su come il mondo è – e su come dovrebbe essere. Sono idee che maturano con l’esperienza, insieme alla storia unica e individuale di ciascuna persona, fatta di incontri e scontri con una realtà irriducibile. La plausibilità della trama verrà giudicata sulla base di queste cicatrici; la profondità dei personaggi verrà giudicata sulla base di queste ombre fenomeniche; la verità sul fondo di ogni storia verrà pesata con le paure e le speranze che ciascuno ha nel cuore.

Una storia, per essere buona, non può funzionare come un appello giuridico, che cerca di convincere il lettore a scendere per uno stretto sentiero sospeso sopra un abisso di irragionevolezza. Deve essere invece più simile a una casa vuota, un giardino senza recinti, una spiaggia deserta affacciata sull’oceano. Il lettore varca la porta con i suoi bagagli ingombranti e gli oggetti a cui è più affezionato, semi di dubbio e frammenti di consapevolezza, mappe sulla natura umana e cesti pieni di fede. A quel punto il lettore comincia ad abitare la storia, ne esplora fessure e angoli nascosti, risistema l’arredamento a proprio gusto, tappezza le pareti con immagini del suo mondo interiore, e trasforma quella storia in una vera casa.

Trasferirsi in una casa e viverci dentro come lettore, conducendo una vita che è al tempo stesso coerente e divergente dalla visione dell’autore, è il principale piacere estetico che troviamo nella lettura. È questa attività di rimodernamento da parte del lettore che permette ai classici di restare attuali per ogni generazione – i grandi classici sono case che possono ospitare una moltitudine di lettori, lettori che l’autore non avrebbe mai immaginato. Sono libri che rifiutano di lasciarsi assimilare con una sola lettura, ma che sembrano sempre scivolare via, auto-trasformarsi, auto-decostruirsi, auto-ribellarsi, auto-ricrearsi – la loro unica costante è il cambiamento, in puro stile punk.

Sei riuscito a unire in maniera omogenea gli antichi poemi europei con i classici cinesi, creando qualcosa di nuovo. Lo si nota nel ritmo e nel taglio della tua scrittura, nel modo in cui poni l’accento sul quadro principale (ti concentri sulle scie che i tuoi personaggi lasciano al loro passaggio anziché sui loro “archi di trasformazione”), nel modo in cui i tuoi personaggi sembrano spesso pedine in preda al fato capriccioso – e questo rende le loro azioni e i loro valori ancora più importanti. Ho apprezzato molto, in questo senso, il tuo uso di un narratore onnisciente. Il risultato finale è distintamente epico, ma è un’epica che abbraccia politica, relazioni familiari, eroi e reietti, linguaggio e tecnologia. Mi stavo chiedendo, quindi: cosa significa epico per te? E questa fusione è nata in maniera naturale, lasciando risuonare e abbinarsi fra loro le tue fonti, o hai dovuto esaltare di tua mano certe somiglianze?

È una bellissima descrizione di quel che ho cercato di fare nei miei libri. Ti ringrazio.

Ho accennato al mio significato di epica nella risposta precedente: è una casa talmente grande che tantissimi lettori possono trasferirsi al suo interno portandosi dietro le rispettive vite, generazione dopo generazione.

Ma la tua domanda mi ha fatto realizzare che dovrei aggiungere qualcosa sulla forma in cui ho scelto di raccontare la mia storia, sulla pianta della casa che ho costruito. Perché ho scelto di attingere non da un’unica tradizione, ma da molteplici? Perché ho rievocato esplicitamente la storia dell’Estremo Oriente in un racconto che, come ho detto in passato, non è ambientato in una “Asia magica”?

Penso sia importante precisare che La Dinastia del Dente di Leone non è un “fantasy asiatico”. Se proprio dobbiamo usare un’etichetta, “fantasy americano” sarebbe una definizione migliore. Ma in tutta onestà, non è un libro fatto per adattarsi a un’etichetta.

Piuttosto, il silkpunk è una nuova mitologia sull’esperienza della modernità, perché è incentrato su un concetto chiave dell’ideologia punk: riadattare quel che era in vista di quel che sarà. Questi libri sono la mia rilettura della narrazione della modernità (e, specialmente negli ultimi libri, della moderna narrazione nazionale americana).

La Grazia dei Re è il primo passo in questo processo di re-mitologizzare la modernità: una nuova visione dell’ordine pre-moderno (quel che era). Il Muro di Tempeste e i libri successivi demoliscono quella visione e, con i suoi pezzi, riedificano qualcosa al tempo stesso familiare e inconsueto: una visione alternativa del significato di moderno (quel che sarà).

Il che fa sorgere una domanda: se Il Muro di Tempeste, il secondo libro, sembra essere il vero inizio della saga (la costruzione della modernità), perché ho scritto un intero libro – La Grazia dei Re – che funge da “preludio”?

Perché una buona casa ha bisogno di buone fondamenta. Uno dei miei principi guida in questa saga è stato il mio desiderio di mettere in discussione e interrogare la narrazione convenzionale della modernità, che è spesso modellata su una specifica narrazione della storia del mio paese, gli Stati Uniti d’America. La Storia Americana viene spesso raccontata tramite allusioni ai modelli “occidentali” (basti pensare a quanti aspetti della politica e della cultura nazionale americana richiamino l’immagine dell’America come una “Nuova Roma”, o a quanto facilmente si applichino le parole di Tucidide a ogni conflitto moderno che riguarda il nostro paese, dove l’America è ritratta come la “Nuova Atene”). Tuttavia, restando legati a tale ristretta serie di allusioni, limitiamo le nostre possibilità di spronare i lettori a intravedere qualcosa di nuovo in una storia familiare o, prospettiva ancora più audace, a ribaltare del tutto tale narrazione.

Serviva una mossa radicale. Ho deciso di abbandonare i modelli di “Nuova Roma” o “Nuova Atene”, sfruttando invece modelli dell’Estremo Oriente per proiettare in un fantasy epico la Storia Americana – e, per estensione, la narrazione della modernità. Perciò, ho preso in prestito gran parte dell’intreccio dalla disputa Chu-Han, così come interpretata dallo storico Sima Qian, e ho allestito un vocabolario di allusioni politiche non-occidentali da cui potessi in seguito attingere per re-immaginare l’epica della modernità.

Molte delle scoperte e invenzioni della Dinastia sono ispirate all’antichità classica cinese; alcune sono basate sulle opere degli antichi Greci; altre sono modellate sugli esperimenti di Benjamin Franklin.

Sono queste fondamenta che mi hanno permesso di costruire una visione alternativa della modernità, un edificio immaginario il cui profilo risulterà nitido soltanto negli ultimi libri, quando la vicenda si allontanerà da questa storia re-immaginata entrando nel campo della pura invenzione. È una visione della modernità non più centrata esclusivamente su ciò che noi riteniamo l’esperienza “occidentale”. Al contrario, fonde molteplici tradizioni e miti assai importanti per me, dall’Iliade a Beowulf, dal Paradiso Perduto ai wuxia, e trasforma la disputa Chu-Han nella mitologia politica che serve da fondamenta per un popolo moderno, completamente nuovo.

Ne Il Muro di Tempeste, questi sforzi cominciano a pagare i loro dividendi. Dopo aver gettato le basi, sono potuto entrare nel vivo della storia creando la costituzione di un nuovo popolo (una costituzione, per me, non è un documento cartaceo, ma un insieme di storie che forma il nucleo di come un popolo si percepisce e si colloca, i suoi valori più profondi). L’intreccio non ha più un preciso corrispettivo storico, a questo punto (quindi, sarebbe del tutto inappropriato identificare il popolo di Dara come “cinesi fantasy”, o i Lyucu come “mongoli fantasy”, o qualsiasi altra etnia come “[inserire nazione a piacere] fantasy”). Il cuore de Il Muro dei Tempeste e dei suoi due seguiti è rappresentato invece da una serie di domande: come può una nuova nazione, costruita aggregando popoli diversi, stabilire una nuova costituzione, darsi una nuova fonte di legittimità politica, radunarsi intorno a un nuovo mito delle origini? Come facciamo a eseguire un esperimento politico volto a edificare una società più giusta senza creare ulteriori ingiustizie nel processo? Che peso dovrebbero dare i rivoluzionari alla saggezza delle tradizioni? È un bene o un male che le nuove generazioni debbano lottare contro il peso della storia in cui sono nati, e convivere con le decisioni prese dai loro antenati? Una “rivoluzione permanente” è qualcosa di desiderabile o anche solo possibile? …

Se questi temi sembrano prendere spunto dalla mia esperienza di giurista, i temi successivi sono basati invece sulla mia carriera di tecnologo. La Dinastia del Dente di Leone è anche una serie che parla di scienza e scoperta. È un fantasy epico con un’abbondante dose di fantascienza – voglio dire, Luan Zya proclama letteralmente che “l’universo è conoscibile”, il manifesto di una visione scientifica del cosmo. Ho vissuto alcuni dei miei migliori momenti da scrittore quando ho narrato la scoperta della forza setadinamica e l’invenzione delle macchine derivate da quel potere. Molte delle scoperte e invenzioni della Dinastia sono ispirate all’antichità classica cinese; alcune sono basate sulle opere degli antichi Greci; altre sono modellate sugli esperimenti di Benjamin Franklin; e altre ancora sono farina del mio sacco. Avendo lavorato come tecnologo, mi piace scrivere di scoperte e innovazioni scientifiche – e sono piuttosto sicuro che anche ai miei lettori piaccia leggerne.

Prima di addentrarci troppo nel filosofico, però, mi preme sottolineare che La Dinastia del Dente di Leone è anche una serie che parla di ragazzi che s’innamorano, che si divertono e fanno cose sciocche, di battaglie pazzesche fra garinafin e aeronavi, di malefiche tattiche di battaglia – ispirate alla storia militare, certo, ma derivate anche dalle mie esperienze come videogiocatore e appassionato di football –, di stratagemmi legali, di riletture decostruzioniste e motori fantastici costruiti in seta e bambù, di giganteschi condensatori che vibrano con il potere del fulmine… Voglio dire: le tematiche sono importanti, certo, ma i libri devono anche essere divertenti.

Ho scritto questa serie perché c’erano delle cose che volevo dire, e perché volevo divertirmi a farlo. Per quanto mi riguarda, sono gli unici due motivi validi per scrivere un romanzo, che sia epico o meno.

In quanto futurologo, qual è l’ostacolo principale che ti trovi ad affrontare per far capire alla gente a cosa stiamo andando incontro, e su cosa dovremmo concentrarci in futuro? Pensi che l’immaginazione e la narrazione saranno elementi basilari per il nostro futuro? Dici spesso, e non potrei essere più d’accordo, che la narrazione è sempre un dialogo dove autore e lettore s’incontrano a metà strada.

Un elemento chiave del mio messaggio è che il futuro è meno prevedibile di quanto ci piaccia credere. Le guerre scoppiano per i motivi più assurdi; i mercati crollano nel giro di una notte; una cosa che abbiamo fatto per decenni si rivela di colpo tremendamente pericolosa; un politico di cui ieri ridevi, oggi diventa la figura più potente del mondo; menti elevate che si atteggiano come se sapessero tutto si ritrovano improvvisamente prive di risposte davanti a un virus; la più grande invenzione nella storia dell’umanità attrae le persone perché, essenzialmente, ci piace condividere foto di noi stessi.

Predire il futuro è quasi impossibile. Questo perché, tra i vari motivi, abbiamo una tendenza a tessere retroattivamente i fili della trama, costruendo una storia che elimini la casualità dalla narrazione. Per anni ho offerto consulenze ai miei clienti in materia di tecnologia e brevetti, il che mi ha portato a diventare uno storico della tecnologia, permettendomi di osservare in azione questa tendenza a revisionare la storia in ottica narrativa. L’evoluzione e l’adozione di una certa tecnologia sono dominate dal puro caso e da eventi fortuiti; prima che avvenga una vera svolta, ci sono moltissimi possibili esiti ancora sul tavolo, in sospeso fra i vari contendenti. Tuttavia, ogni volta, noi costruiamo a posteriori una storia allo scopo di spiegare come mai il vincitore abbia vinto e il perdente abbia perso, dando l’idea che il sentiero che abbiamo intrapreso fosse inevitabile, giustificato, ragionevole. La storia, nella sua essenza, è fatta di trame realizzate post hoc e sovraimpresse sulla casualità, profezie auto-avveranti che vorrebbero spiegarci qualcosa ma in realtà non spiegano niente. A ogni nuova occasione, siamo tentati di applicare storie familiari alle terre incognite, a estrapolare le tendenze presenti proiettandole indefinitamente nel futuro, il tutto pensando che gli archi storici siano qualcosa da scoprire anticipatamente, anziché una narrazione da costruire una volta che la polvere si è posata.

È molto difficile far capire alla gente questa essenziale imprevedibilità del mondo. Siamo profondamente legati alle storie perché le storie creano significato e danno conforto; in quanto specie umana, in realtà, non traiamo affatto le nostre convinzioni da statistiche e prove concrete. Quello che ci persuade davvero, in definitiva, sono sempre le storie, i miti che ci permettono di affrontare l’orrore esistenziale insito nella casualità irriducibile della realtà, di alzarci dal letto e arrivare in fondo alla giornata.

A che serve, quindi, fare programmi a lungo termine (cosa di cui io sono a favore)? Penso che l’unica forma di pianificazione veramente efficace sia spingere verso la decentralizzazione, dare priorità ai margini; ridurre la nostra dipendenza da autorità e istituzioni titaniche, globali, centralizzate; democratizzare, localizzare e riallocare il potere.

Il che ci riporta al tema delle storie. Proprio come una cattiva storia può offrirci una falsa consolazione e condurci sulla strada sbagliata, una buona storia può costringerci a riesaminare la realtà e riappropriarci della nostra agentività. Se la nostra specie ha la tendenza a lasciarsi ammaliare dalle storie, allora la cosa migliore è accettare questo fatto e dargli risalto, rammentarci che tutti noi ci raccontiamo costantemente delle storie per scendere a patti con il caso, incoraggiare ciascuno di noi a imbastire e creare una storia che incarni i propri valori, che offra speranza, forza e voglia di andare avanti. Rivendicare il potere di imbastire la nostra narrazione – anziché vivere una storia intessuta da qualcun altro – significa diventare più resilienti, cioè l’unico modo per fare piani in vista del futuro.

Ci prendiamo in giro da soli quando pensiamo che un popolo sia definito da sangue, linguaggio e territorio: in definitiva, l’unica cosa che può creare e unire un popolo è una storia, un mito delle origini da riraccontare, rinnovare, riscrivere, riproiettare e riadattare.

Ho notato come tu e altri autori di fantascienza abbiate espresso la necessità, nelle prime fasi della pandemia, di fare un passo indietro e fermarsi a riflettere sui nuovi scenari, il che secondo me conferma splendidamente quanto gli autori di speculative fiction siano “realisti di una realtà differente”, per dirla con Ursula LeGuin. C’è un aspetto politico in tutto questo. Penso a scrittori come China Miéville o Kim Stanley Robinson, più attivamente impegnati in politica, ma non posso fare a meno di pensare che anche La Dinastia del Dente di Leone sia una saga profondamente politica – ne Il Muro di Tempeste ci mostri il punto di vista di un popolo diverso, una razza di invasori che sembra sancire la fine del mondo per Dara, ma che aveva già affrontato una propria apocalisse in passato. Ripensando a quel dialogo fra scrittore e lettore: ogni dialogo ha luogo tramite un linguaggio – la speculative fiction, quindi, è un buon linguaggio per parlare di cosa è importante adesso e di cosa sarà importante in futuro?

Hai ragione quando dici che la Dinastia è una saga coscientemente politica. Nel suo re-mitologizzare la modernità, si inserisce nell’attuale dibattito americano sul significato della Storia Americana. Chi è che la racconta? Chi fa parte del “popolo americano”? Qual è il suo linguaggio? L’America sta attraversando una crisi costituzionale – da almeno quattro anni – ma questa crisi non è limitata al terreno legale. È una crisi che riguarda la storia.

Ci prendiamo in giro da soli quando pensiamo che un popolo sia definito da sangue, linguaggio e territorio: in definitiva, l’unica cosa che può creare e unire un popolo è una storia, un mito delle origini da riraccontare, rinnovare, riscrivere, riproiettare e riadattare, generazione dopo generazione, un processo tutt’ora in corso per spiegare a noi e agli altri chi siamo, e in che misura siamo diversi dai popoli di altre epoche e aree geografiche. Distorcendo leggermente le parole di Will Durant, possiamo spingerci a dire che una grande civiltà non si lascerà mai conquistare veramente da forze esterne finché il suo popolo non avrà perso fede nella propria storia.

La Dinastia del Dente di Leone parla della travagliata nascita della Storia di Dara, parla dell’anima stessa di Dara. Se qualcuno ci leggerà gli stessi travagli e la stessa anima della Storia Americana, è stato un mio preciso proposito. Ma come ogni vero racconto epico, esso non è confinato alla sua terra d’origine, l’America. Lettori da tutto il mondo hanno già intravisto le rispettive narrazioni al suo interno, e questo mi gratifica.

Sul tuo ultimo punto: assolutamente sì. La speculative fiction, come ogni forma di fiction, può essere definita come un modo per dare senso alla realtà filtrando e distorcendo ciò che è convenzionale per realizzare qualcosa di inedito e inaspettato. Come abbiamo già detto, non è solo materia dell’autore, ma si tratta di una collaborazione fra lettore e autore mediata dal testo. Gli autori speculativi non sono né oracoli che fanno “previsioni” sul futuro (fantascienza), né sognatori che agognano il ritorno del buon re (fantasy); noi, piuttosto, proiettiamo una versione alternativa della realtà tramite immagini fantastiche, invitando il lettore a re-immaginare il mondo da zero.

Su questo argomento: tu hai creato non soltanto un linguaggio, ma anche un intero e affascinante sistema di scrittura. Vuoi descrivercelo?

Ah, il mio argomento preferito!

Descrivere integralmente tutte le lingue e le grafie immaginarie di Dara occuperebbe troppo spazio, ma darò una breve descrizione per farvi avere un’idea.

Dara ha due sistemi grafici paralleli: le lettere zyndari, che potrebbero ricordare l’alfabeto coreano hangul, e i logogrammi Ano, le cui caratteristiche, in vari modi, riecheggiano diversi sistemi grafici del nostro mondo: hanzi, khatt, i geroglifici, il Braille, ancora l’hangul, il cuneiforme, etc. Entrambi i sistemi possono essere usati per scrivere testi in qualsiasi lingua (la distinzione fra lingua e scrittura è spesso sottintesa nel romanzo, ma è importante tenerla a mente), ma le lettere zyndari sono usate principalmente per le varietà volgari mentre i logogrammi sono usati principalmente per scrivere in lingua Ano classica. [È un rapporto simile a quello fra il latino e le nostre lingue neolatine, NdT]

I logogrammi sono diversi da quasi tutti i sistemi grafici di nostra conoscenza perché hanno un vero elemento tridimensionale. Vengono incisi su grumi di cera lasciati cadere su rotoli di seta, e vista la loro natura tridimensionale possono essere letti con gli occhi così come con le dita. Per quanto ogni grafia umana rappresenti in fin dei conti un insieme di suoni, i logogrammi Ano fanno passare quasi in secondo piano la rappresentazione dei suoni: è una conseguenza del loro ampio repertorio di simboli, e del modo in cui tali simboli vengono abbinati come mattoncini Lego per rappresentare idee ancora più complesse.

Queste grafie immaginarie mi hanno permesso di esplorare tantissimi temi che reputo interessanti: la relazione fra oralità e letteratura; le conseguenze di adottare grafoletti in cui convivono lingue, topoletti e dialetti di diversa provenienza; il modo in cui la scrittura modella il pensiero; l’uso della scrittura nelle arti, nel design, nella moda, etc.; il portato emotivo di scritture e linguaggi; etc. I lettori noteranno certamente che sono tutti temi critici relativamente alla nascita della modernità, e non è una coincidenza che rivestano un ruolo così importante nel mio testo.

Incidentalmente, molte idee in merito alla scrittura che compaiono nella Dinastia erano state già esplorate, in maniera diversa, nel mio racconto The Bookmaking Habits of Select Species. I lettori che provano il mio stesso interesse per questi temi potrebbero trovare spunti utili confrontando questo racconto con i romanzi.

Parliamo un attimo della filosofia che appare nella Dinastia del Dente di Leone. In Occidente, ho l’impressione che spesso si fraintendano le filosofie orientali come dei sistemi perfetti di regole, granitici ma obsoleti, in un certo senso, degli oracoli da interpretare. Invece, tu ci mostri queste filosofie nell’atto di nascere, fallire, mescolarsi e migliorarsi, ed è una visione davvero stimolante. Luan Zya, che come sai è il mio personaggio preferito, ne è la rappresentazione migliore. Raccontaci del tuo approccio alla filosofia in questi romanzi – in un’altra intervista ho letto del tuo interesse per il trascendentalismo americano, ed essendo a mia volta un avido lettore di Thoreau mi incuriosisce molto il ruolo che ha giocato nei tuoi libri.

Taoismo, buddhismo zen e trascendentalismo americano (non solo Emerson e Thoreau ma anche figure più moderne come Annie Dillard) sono tutte tradizioni filosofiche a me care, e che svolgono un ampio ruolo nella Dinastia. La frase che ho citato in precedenza, “l’unica costante è il cambiamento”, viene da Eraclito, ma potrebbe essere stata pronunciata da Laozi, da Zhuangzi, da qualsiasi altro filosofo di queste tradizioni, in verità.

La percezione che le “tradizioni” siano qualcosa di immutabile è un bizzarro artefatto della nostra narrazione standardizzata della modernità – che è il modo in cui l’Occidente rigetta le sue stesse tradizioni. Poiché la storia dell’Occidente vuole porsi come rivoluzionaria, deve bollare tutto quello che l’ha preceduta come statico, immutabile, obsoleto. Da qui lo spiacevole effetto collaterale che noi occidentali siamo costretti a subire quando fraintendiamo la diversità delle nostre stesse tradizioni, e finiamo talvolta per vederle addirittura con ostilità.

Le vere tradizioni, invece, sono in continua evoluzione, cambiamento, crescita – come ogni cosa vivente. Per nostra fortuna, i più recenti studi sul Medioevo e sulla vita premoderna in generale ci stanno aiutando a correggere il tiro. La vita europea premoderna era molto più localizzata, diversificata, varia, salutare, libera, democratica, e piena di agentività e scelta rispetto alla caricatura che ne studiamo a scuola – sotto certi aspetti e in alcuni luoghi, era anche più appagante della nostra modernità industrializzata. Era certamente tutt’altro che statica e immutabile. Dovrebbe risultare ovvio, a questo punto: lo stesso grado di dinamismo, fluidità, diversità e agentività è presente nelle tradizioni di tutte le società del globo.

Noi stiamo vivendo ancora oggi un processo di cambiamento. La storia non è finita, e noi non siamo l’apice della Creazione. La natura è, come sempre sarà, al tempo stesso incredibilmente feconda e orribilmente indifferente. L’unica cosa che possiamo fare è aggrapparci l’uno all’altro – e gli esseri viventi non possono mai essere schiacciati in unico stampo. Non abbiamo mai scoperto una perfetta forma di governo, una perfetta costituzione, un perfetto stile di vita, una perfetta soluzione per prendere decisioni collettive, un sentiero perfetto per attraversare quell’imprevedibile muro di tempeste che è l’universo. La realtà resta velata ai nostri occhi, e dobbiamo procedere con il cuore aperto e pronto al cambiamento, poiché come disse già Ovidio con bellissime parole, è soltanto tramite la trasformazione che troviamo il nostro vero io, ed è soltanto tramite la metamorfosi che possiamo raccontare storie longeve.

Non mi sono mai preoccupato troppo di adattarmi a etichette imposte dall’esterno. Se dovessi descrivere la mia fiction in modo sintetico, direi che scrivo storie di “metafore rese letterali”.

Tu sei anche un prolifico autore di racconti, e ammiro la tua capacità di mutare voce, ritmo e stile a seconda del formato. Quali sono i maggiori ostacoli che incontri nell’alternarti fra queste due forme? E come descriveresti i tuoi racconti al pubblico italiano, che finora non ha potuto leggerli nella loro interezza?

Lavorare a una cosa come La Dinastia del Dente di Leone è stata un’enorme gioia per me. Immergermi in un intero universo che conosco soltanto io, descriverne gli incredibili panorami, conoscerne gli eroi e i tiranni, commuovermi per le sue tragedie, ridere delle sue bizzarrie, conversare con dei e generali, raccontarne guerre e rivoluzioni, seguirne le scoperte, annotarne i progressi, raccontarne le storie, riflettere e rifrangere la nostra stessa narrazione tramite la lente di Dara – esiste forse un’esperienza più bella al mondo? Mi sento davvero fortunato a essere stato un residente temporaneo di Dara.

I racconti, invece, rappresentano un’esperienza completamente diversa. Non mi considero mai un residente nei molti mondi dei miei racconti. Sono un visitatore di passaggio, nel migliore dei casi, talvolta un semplice turista, in grado di restituire soltanto un accenno della bellezza dei mondi che visito. Sono come Ali Baba che esce dalla grotta portandosi dietro una o due carabattole, con la mente piena di meraviglia per i tesori che ha intravisto.

Ma anche questa esperienza più “superficiale” ha i suoi vantaggi. Significa che i miei racconti possono appoggiarsi maggiormente sullo spazio negativo, possono lasciare ancora più libertà al lettore di riempire da solo le lacune. Paradossalmente, a volte si può dire di più dicendo di più (come nel fantasy epico) e altre volte si può dire di più dicendo di meno (un po’ come in State Change, un mio racconto sul trovare noi stessi tramite la metamorfosi).

In quanto a descrivere i miei racconti: la critica spesso fatica a inquadrare la mia fiction ed è indecisa tra fantascienza e fantasy, pensando che non incarni specificamente nessuno dei due. La cosa non mi sorprende perché non mi sono mai preoccupato troppo di adattarmi a etichette imposte dall’esterno. Se dovessi descrivere la mia fiction in modo sintetico, direi che scrivo storie di “metafore rese letterali”.

Lascia che mi spieghi meglio. Ogni forma di fiction, secondo me, è accomunata dal fatto che predilige la logica della metafora rispetto alla logica della persuasione. In questo senso, il cosiddetto realismo non è poi così diverso dalla fantascienza, dal fantasy o da qualsiasi altro genere. Anzi, spesso l’elemento speculativo della fantascienza non riguarda affatto la scienza, ma è piuttosto la letteralizzazione di una qualche metafora. Per esempio, un modo comune per descrivere l’onnipervasiva alienazione della vita moderna consiste nel dire che le persone si sono ridotte a vivere come dei robot, che è diventato difficile pensare alla nostra soggettività come a qualcosa di concreto. Fin qui, è soltanto una metafora. Ma se provi a rendere questa metafora vera in senso letterale, finisci con il creare qualcosa di simile a Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, dove l’alienazione della modernità è sapientemente declinata in un mondo dove alcune persone sono veramente dei robot, e non puoi nemmeno essere sicuro di non essere un robot tu stesso.

Rendendo una metafora vera in senso letterale, puoi trasformare la realtà, e diventi in grado di vedere cose che prima non vedevi. È questo il potere della fiction, in senso lato, ma si manifesta in modo particolarmente brillante quando l’autore mette il metaforico davanti al letterale.

Grazie infinite per questa intervista, Andrea, e grazie a voi, lettori e lettrici, per avermi ascoltato fino a qui. Spero che possiate trovare una casa in Dara, e che mi accompagnerete per re-immaginare, ri-raccontare e rivendicare il mito della modernità tutti insieme.

Andrea Cassini filologo medievale di formazione, è scrittore e traduttore di speculative fiction per Mondadori e Zona42. Scrive abitualmente di cultura per L'Indiscreto e di sport per L'Ultimo Uomo, e conduce la trasmissione/podcast I diari del lupo su Fango Radio. Ha pubblicato racconti in varie riviste e antologie. Insieme a Claudio Kulesko è autore del saggio Blackened. Frontiere del pessimismo nel XXI secolo (Aguaplano, 2021). Non tutto il male - Cronache della terra inabitabile (effequ, 2021) è il suo primo romanzo.