Italiani brava gente
La violenza dell’attuale discorso politico italiano e delle sue pratiche di chiusura e rifiuto nei confronti di qualsiasi forma di alterità impone un’assunzione di responsabilità collettiva da parte del mondo della cultura. L’irrigidimento delle frontiere, la normalizzazione di una retorica di odio razziale e l’incitamento a una paura dell’invasione da parte dell’altro, affondano le radici in un passato coloniale, quello italiano, per troppo tempo dimenticato, rinnegato e respinto ai margini delle narrazioni egemoni. Nonostante il proliferare di pratiche virtuose l’Italia registra ancora un notevole ritardo nella creazione di un orizzonte condiviso di ricerca e di discussione post-coloniale.
Quale ruolo può giocare il linguaggio dell’arte nel sostenere un processo di decolonizzazione della sfera pubblica italiana? Nell’individuare e decostruire quegli immaginari che silenziosamente avvelenano il nostro presente politico? Forse il primo e più importante passo consiste proprio nel compiere lo sforzo di colmare quel vuoto di memoria che da decenni mistifica il ricordo della violenta impresa coloniale italiana. Ho parlato con Giovanni Cattabriga, intellettuale, scrittore e – come Wu Ming 2 – membro del collettivo Wu Ming, per tracciare una fenomenologia di questo processo di amnesia collettiva, raccontando la sopravvivenza degli spettri coloniali che si aggirano indisturbati nel linguaggio quotidiano, nel discorso politico e nelle strade delle città italiane.
Vasco Forconi: La percezione dell’Italia quale paese imperialista è spesso assente tanto nelle nostre narrazioni quanto in quelle di chi racconta e studia il colonialismo da una prospettiva globale. Quali sono le ragioni di questo vuoto di memoria e di questo vuoto di narrazioni?
Wu Ming 2: Effettivamente quando mi dicono che da una prospettiva globale c’è una scarsa conoscenza del fatto che l’Italia abbia un passato coloniale questo mi sorprende, penso sempre che invece la conoscenza di questo passato all’estero sia data per scontata. Credo che dalla prospettiva italiana competano diversi motivi. Un primo motivo, forse il più importante, credo sia una questione di framing, l’identità italiana è legata in maniera molto forte al vittimismo, si basa, si fonda, sul vittimismo. Ce l’abbiamo pure nell’inno: «noi siamo da secoli, calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi». L’italiano si percepisce costantemente come vittima di complotti internazionali, di altre potenze che rendono l’Italia una potenza di secondo piano, vittima di altri imperi che nel passato hanno soggiogato la penisola, vittima di scelte fatte a tavoli a cui l’Italia non ha potuto partecipare. Quindi tutto il mito della vittoria mutilata dopo la Prima guerra mondiale e addirittura le stesse imprese cosiddette coloniali, agli inizi, vengono motivate dal vittimismo. Pascoli quando pronuncia il suo discorso di Barga La grande proletaria si è mossa, in sostanza dice «bene aver aggredito l’impero ottomano in Tripolitania e Cirenaica, bene che andiamo a conquistarci uno spazio perché finalmente non saremo più chiamati cìncali, mangiamaccaroni, gente che fa risse al coltello in giro per il mondo, migranti, ma ecco che andiamo a cercare spazio per i nostri proletari…».
Quindi l’italiano davvero fa fatica a vedere sé stesso nel ruolo del carnefice. Ne ho avuto una dimostrazione lampante rispetto a una fotografia che circola molto in occasione del cosiddetto Giorno del ricordo, cioè il 10 febbraio, nel quale in Italia si ricorda l’esodo degli italofoni che vivevano in Istria e in Dalmazia e l’uccisione, presuntamente a scopo di pulizia etnica, di molti italiani in quelle terre, le cosiddette Foibe. In quel giorno lì circolava diffusamente una fotografia che rappresentava un gruppo di soldati ripresi di spalle, evidentemente italiani perché con l’elmetto dell’esercito italiano, che fucilano cinque civili sloveni a Dane. Questa foto circolava come esempio della pulizia etnica presunta, operata dalle forze armate della Jugoslavia e dai partigiani di Tito nei confronti dei civili italiani. Perché evidentemente qualcuno, facendo una ricerca su quei temi, ha trovato questa foto e non gli è parso possibile che i carnefici di civili fossero degli italiani e quindi ha dato per scontato che fosse una rappresentazione della soppressione di italiani da parte dei cattivi jugoslavi. Ricordo addirittura un tweet de La Destra di Storace in cui sulla schiena dei soldati italiani era stata applicata la falce e martello e sulla schiena degli sloveni era stata applicata la bandiera italiana, in un rovesciamento totale del rapporto vittima-carnefice.
Penso che in buona parte ci sia un meccanismo di questo tipo, «una storia nella quale gli italiani sono carnefici non la so raccontare, non trovo le parole per dirla, nemmeno la vedo. Non riesco proprio a rendermene conto». Poi ovviamente c’è stata in parte una censura, c’è stata in parte un’edulcorazione, c’è stata in parte una rimozione. Parlo raramente di rimozione, trovo giusto che tu abbia parlato di vuoto di memoria, perché la categoria della rimozione, almeno in chiave psicanalitica, di solito parla di qualcosa che l’inconscio elimina perché se ne vergogna. Quindi parlare di rimozione nel caso della storia del colonialismo italiano ha senso fino a un certo punto, perché trovo che invece siano altri i meccanismi che creano questo vuoto di memoria.
È sintomatico il fatto che Viva Menelicchi! – l’installazione-camminata che ti ha visto coinvolto a Palermo in occasione di Manifesta – fosse praticamente l’unico lavoro lì presente a raccontare le memorie del colonialismo italiano…
E questo colpisce a maggior ragione perché il tema di Manifesta era «coltivare il giardino della coesistenza» quindi un tema che già portava a indagare quali erano le radici di una difficoltà di coesistenza, quale era il veleno che aveva avvelenato la possibilità di coltivare un giardino della coesistenza. Forse ho avuto una dimostrazione di quello che dici quando sono andato a marzo a Palermo a presentare la ricerca che avrei voluto fare sui luoghi della città legati alla storia del colonialismo italiano, popolati dagli spettri del colonialismo italiano.
Quando ho presentato l’idea di questa ricerca al Teatro Garibaldi, diverse persone che erano intervenute a quell’incontro mi hanno fatto notare che forse non avrei trovato granché, che forse avrei dovuto scegliere un altro argomento più rappresentativo della storia della città. Che in fondo un conto era se volevo leggere in chiave post-coloniale tutto il network di accoglienza che invece è presente a Palermo, spesso anche di grande valore e del quale la città è consapevole ma su cui si costruisce anche una certa retorica, non lo nascondiamo no. Addirittura qualcuno mi disse, di nuovo il vittimismo, «casomai avresti potuto fare una ricerca su come Palermo è stata vittima di imperi e sovrani stranieri e del colonialismo, non da ultimo del Regno d’Italia». Questo è significativo di città dove questo legame con il passato coloniale non è evidente come a Roma, ma è molto più complicato e nascosto. Le persone sono del tutto indifferenti al passaggio di questi spettri, che quindi si aggirano indisturbati per la città. Quindi succede che si inviti a fare shopping in una via elegante intitolata a un generale italiano che organizzò e diresse i bombardamenti all’iprite sull’Etiopia durante l’invasione fascista. «Venite a fare shopping in Via Generale Magliocco!».
Il dibattito post-coloniale in Italia si divide tra lo spazio accademico, la ricerca artistica, letteraria, cinematografica e l’attivismo sociale. Nel mezzo c’è una massa sconfinata di cittadini ed elettori che del nostro passato coloniale forse non ha mai sentito parlare se non in una prospettiva già profondamente revisionista…
Penso che qualcosa è stato fatto negli ultimi dieci anni. Una maggiore consapevolezza dell’esistenza di questo passato si è diffusa, anche un po’ all’esterno di quegli ambiti che tu citi. Non è chiaramente a livello mainstream, non abbiamo ancora raggiunto l’elettore comune o una massa critica. Però ha contribuito a questa ripresa del racconto di cosa fu il colonialismo la consapevolezza che l’attuale situazione italiana, che l’ossessione con l’emergenza e la crisi dei migranti – cosiddetta – abbiano a che fare con quel passato. E che appunto si chiami emergenza quella che è una incapacità di fare i conti con il passato. Molto spesso poi succede questo: quei pochi che conoscono il colonialismo italiano già lo sovrappongono al fascismo. L’Italia è stata colonialista quando c’era il fascismo. Poi il fascismo è stato sconfitto, l’Italia non è stata più colonialista e prima, siccome non c’era una vera e propria retorica imperiale, non c’era niente. Di conseguenza il razzismo coloniale per chi lo conosce viene associato alle leggi razziali fasciste e casomai qualcuno sa che queste leggi avevamo dei prodromi nell’organizzazione legislativa coloniale.
Ma pochi sanno che invece pratiche segregazioniste, che poi il fascismo trasformò in leggi nazionali, erano già nei codici legislativi dell’Italia liberale e quindi che già c’erano regole che volevano mantenere separato il colonizzatore dai sudditi per una questione di prestigio. Questa consapevolezza un po’ si è fatta strada grazie al presente: che ci sia un problema di razzismo in Italia è sotto gli occhi di tanti. Dire «bene, se vogliamo cominciare a combattere questo dilagare del razzismo dobbiamo conoscere quale ne è la composizione. C’è dentro anche molto del passato coloniale, allora lo dobbiamo conoscere». Questo invito coinvolge un po’ più soggetti oltre a quelli che citavi tu. Allo stesso modo quando si comincia a far notare che molti dei profughi che arrivano transitano dalla Somalia, dalla Libia o dall’Eritrea, allora questo riporta in auge il fatto che queste sono state tutte colonie italiane.
Uno degli episodi più dimenticati di tutta la storia coloniale italiana è l’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, l’A.F.I.S. Quindi, secondo me, per diffondere una maggiore consapevolezza critica rispetto al passato coloniale italiano bisogna inevitabilmente passare dal presente. Il presente che stiamo vivendo ci parla in continuazione di questa storia a meno che non la vogliamo tenere sotto il tappeto. Invece può essere l’occasione per tirarla fuori e per farla conoscere anche a quei soggetti che arrivano in Italia e che spesso sanno molto poco di quello che è stato il passato coloniale italiano. Addirittura facendo interviste ci sono dei ricercatori che hanno scoperto quanto a volte la percezione dei migranti sia «bene, siamo venuti in Italia che, a differenza della Francia, non è stato un paese colonialista».
La lingua italiana è una creatura meravigliosa che però necessita di tempi molti lunghi per registrare determinati cambiamenti sociali, certamente a livello lessicale. Per diverse ragioni siamo molto lontani dall’orizzonte del politically correct anglofono, e anzi quasi non disponiamo di un vocabolario condiviso con cui raccontare l’orizzonte post-coloniale.
Rispetto al linguaggio strettamente accademico c’è una carenza di questo tipo. A volte per esprimere determinati concetti della critica post-coloniale si finisce a usare termini inglesi perché il termine italiano non c’è. Dall’altra parte è mancato in Italia, almeno fino ai primi anni Novanta, quel talking back che si è verificato altrove. Altri paesi hanno avuto una letteratura scritta nella lingua del paese colonialista, inglese, francese, che parlava di quella colonizzazione dal punto di vista del colonizzato, e questo è avvenuto molto presto. In Italia questo non c’è stato.
Recentemente ho letto con grande interesse un libro curato da Simone Brioni sul rapporto coloniale e post-coloniale tra Italia e Corno d’Africa, c’era un articolo nel quale si analizzavano alcuni testi anticolonialisti etiopi in cui l’italiano è appunto il colonizzatore. Questi libri, magari molto noti in Etiopia, sono scritti in amarico. Io stesso era la prima volta che ne sentivo parlare. È un passaggio lunghissimo, che poi rischia di rimanere chiuso dentro a un contesto accademico mentre sarebbe interessantissimo poter tradurre per una casa editrice, anche con una certa diffusione, questi testi che risalgono agli anni Cinquanta e agli anni Sessanta. Finora conoscevo qualche poesia di poetesse e poeti somali contro il colonialismo italiano, perché ai tempi dell’A.F.I.S. qualcosa era stato fatto tradurre per dimostrare che l’Italia dava spazio alla critica contro il suo stesso colonialismo proprio perché «l’A.F.I.S. non era più colonialismo». Se tradotta, questa letteratura ha un grande effetto anche se non è stata scritta in italiano. Anche perché l’Italia nelle sue colonie ha fatto una politica di alfabetizzazione scarsissima, quindi in Somalia i sudditi non potevano studiare oltre la terza elementare, perché comunque per gli italiani «un negro era buono per prendere o una zappa o un fucile».
Quindi non abbiamo Senghor, Aimé Cesaire, non abbiamo gli intellettuali che però parlano la lingua del colonizzatore. E questo secondo me ha un effetto anche sulla lingua. Dai primi anni Novanta in poi – uno dei primi testi è Lontano da Mogadiscio di Shirin Ramzanali Fazel – iniziamo finalmente ad avere figli e nipoti dei sudditi coloniali che cominciano a esprimersi in italiano e quindi a usare una lingua più ibrida, una lingua più nuova, ad arricchire l’italiano nel modo in cui sono state arricchite lingue come il francese dall’apporto di scrittori post-coloniali. Però è un cammino che è iniziato per l’appunto solo da vent’anni.
Forse è proprio nella lingua che il razzismo radicato nell’Italia contemporanea emerge in modo più doloroso. Le vecchie e nuove destre xenofobe stanno normalizzando un vocabolario di odio razziale. Quali possono essere le strategie per decostruire e disinnescare questa retorica?Certe parole dovrebbero avere un’immediata sanzione sociale, punto. Un problema è quando vengono usate da esponenti politici della destra e dell’estrema destra, in quel caso c’è un tipo di reazione, e il risultato comunque è quello di una normalizzazione. Ma questo è un problema più vasto della politica italiana, il cui linguaggio ormai si è livellato sul discorso da bar.
Rispetto invece al problema di persone che non sono orientate in maniera così netta, che non sono militanti di estrema destra, e invece si esprimono con parole, con concetti, con idee razziste, l’unico strumento è da un lato trovare parole diverse e dall’altra parte problematizzare l’uso di certe parole e infine sanzionarne l’uso. Cioè non farne passare una. Poi ripeto, un’attenzione alla lingua secondo me va fatta in maniera più costante, troppo spesso pensiamo che il modo in cui parliamo tutto sommato non sia così importante, che sia una questione da buonisti, e invece non dobbiamo perdere l’abitudine a mettere sotto la lente il modo in cui parliamo. Anche le parole che ci sembrano più normali. Recentemente su Twitter è nato uno scambio tra noi Wu Ming e altri sulla parola con cui chiamare le persone che arrivano da altri paesi. «Migranti» era un po’ la parola che si era trovata come risposta a «immigrati», perché nei primi anni Novanta la Lega Nord insieme ad altre forze politiche faceva una retorica contro «l’immigrazione». Forse adesso mostra la corda anche la parola «migranti», perché in fondo è diventata un’etichetta troppo onnicomprensiva che viene messa sopra persone che hanno progetti migratori molto diversi, vite molto diverse e che pure a un certo momento, cazzo, smettono di essere migranti.
Insomma far vedere come da una discussione sopra le parole poi nasce una maggiore consapevolezza può essere uno strumento per diffondere questa stessa consapevolezza. Cioè prendere le parole come pretesto, così come noi prendiamo come pretesto le targhe di intitolazione di una via. Cioè, tutto sommato è chiaro che io non considero il primo e più importante problema di Palermo il fatto che c’è una via intitolata al Generale Magliocco, me ne guardo bene. Però penso che il nome della via vada usato come pretesto per parlare di una cosa, poi magari la targa rimane lì. Ok, siamo d’accordo a intitolare una via a un massacratore, stragista, uno che ha usato armi chimiche, però scriviamocelo sopra: «Via Generale Magliocco, sterminò etiopi utilizzando armi proibite». E poi magari lo scriviamo anche in amarico, così se un etiope va a Palermo lo vede che noi siamo orgogliosi di intitolare una via a questo signore.
Se è importante capire quali storie vengono raccontate lo è altrettanto capire chi ha la possibilità di farlo. In che modo può il mondo della cultura e della ricerca «italiano» supportare la crescita di un’identità afroitaliana?
Abbiamo estremo bisogno di questo. Trovo che nella letteratura qualcosa si sia mosso, soprattutto dai tempi in cui un certo tipo di scritture erano quasi sempre a quattro mani, tra un migrante che raccontava la sua storia di migrazione e un giornalista che la trasformava in una storia appetibile per il pubblico italiano. Questa sorta di stampella ormai gli scrittori figli della migrazione se la sono cavata di torno.
A volte succede che quando vuoi mantenere una persona in posizione subalterna la strategia non è sempre solo quella di silenziarla. C’è anche un modo di mantenere le persone in posizione subalterna mettendogli il microfono davanti e dicendo «parla, puoi parlare». Avviene in maniera più subdola, se le domande vengono poste prima di mettere il microfono davanti alla bocca del marginalizzato e se a farle è sempre e solo il marginalizzatore, l’oppressore. Quindi il conduttore maschio, bianco, borghese della trasmissione televisiva che fa la domanda e accoglie in studio il migrante dall’Eritrea dice «vedete noi diamo parola a queste persone». Però poi la domanda su che cosa raccontare gliela fa lui, e che cosa deve raccontare? Deve raccontare il suo viaggio, la sua storia d’integrazione. Un supporto fondamentale lo possiamo dare anche smettendo di fare sempre le stesse domande, di chiedere sempre la stessa storia. Cioè davvero avremmo fatto un passo importante, e in parte lo abbiamo già fatto, quando scrittori figli della migrazione potranno finalmente smettere di raccontare la migrazione ma potranno raccontarla, come fa qualunque altro scrittore, mettendo la propria autobiografia anche dentro a un romanzo di fantascienza.
La mostra a cura di Vasco Forconi Italiani brava gente. Amnesie e memorie del colonialismo italiano andrà avanti fino al 3 novembre presso la Fondazione VOLUME! di Roma e ospita lavori di Alterazioni Video e Luca Babini, Bridget Baker, Fare Ala + Wu Ming 2. Per informazioni: [email protected] – tel 06-6892431