Femminismo glitch
La mia fase cyberpunk risale a circa un decennio fa. Quando leggevo quasi esclusivamente J.G. Ballard e Philip K. Dick, quando ero sempre presa male e non capivo perché. A quegli anni risale l’acquisto di un libro che Antonio Caronia pubblicò nel 1996 e che fino ad oggi non avevo ancora mai letto. Ne Il corpo virtuale l’autore scrive: «Confinata per secoli nei gerghi della filosofia e della scienza, [la parola] “virtuale” sta entrando, più o meno trionfalmente, nel linguaggio comune. È vero, il suo uso prevalente è ancora sinonimo di “irreale”, “finto”, “non autentico”: ma la sua diffusione segna comunque una riscossa della “potenza” sull’“atto” […]. O meglio, indica che anche i confini tra queste due categorie traballano, si fanno labili ed incerti».
Prosegue poi Caronia: «La tecnologia digitale, affermano i suoi sostenitori, allarga come mai prima d’ora gli spazi di libertà dell’uomo. No, ribattono i suoi detrattori, essa è un nuovo e più perfezionato strumento di dominio, di irreggimentazione, di spersonalizzazione. Ma una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, questo tecnologie sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità».
A essere toccato in profondità, nota ancora Caronia, è «l’immaginario del corpo» e il suo rapporto col concetto di identità: «Le tecnologie digitali sembrano […] andare verso un’evanescenza del corpo, verso una tendenziale scomparsa nella immaterialità delle interazioni elettroniche. […] Potremmo dire che ai processi di replica del corpo e di invasione del corpo, le tecnologie virtuali cominciano ad affiancare un terzo processo, quello di disseminazione del corpo nelle reti e nello spazio virtuale, immateriale, delle macchine digitali. E il corpo disseminato è destinato a minacciare un rapporto basilare, che aveva retto, più o meno immutato, per decine di migliaia di anni, il rapporto fra corpo e identità».
Già a metà anni Novanta insomma, Caronia introduceva due concetti fondamentali: che il confine tra realtà «virtuale» e realtà «reale» è sempre meno definito; e che il corpo, smaterializzato e ubiquo, disseminato attraverso le tecnologie digitali, metterà in crisi il suo rapporto con l’identità. Questioni attorno alle quali, vent’anni dopo, continuano a fare perno i discorsi su tecnologia, filosofia e attivismo.
Nel dibattito contemporaneo notiamo sommariamente due correnti principali: quella che identifica una dicotomia tra ciò che accade IRL («In Real Life», o anche AFK, «Away From Keyboard») e ciò che accade online; e una seconda, più recente, che sostiene che questa separazione a conti fatti non esiste, che ciò che succede online succede nella vita reale.
Una convinta sostenitrice della sovrapposizione tra vita virtuale e vita reale è Legacy Russell: scrittrice e curatrice d’arte particolarmente impegnata nell’«utilizzo del digitale come mezzo di resistenza all’egemonia del corporeo», Russell è fondatrice di quello che lei stessa chiama «Glitch Feminism». Quando l’ho incontrata a Utrecht (erano i giorni di Impakt, un festival di arte e tecnologia in cui teneva una presentazione del suo Glitch Feminist Manifesto, originariamente scritto nel 2013), non potevamo quindi che partire parlando di networked feminism, cioè la mobilitazione online da parte di femministe, in risposta ad azioni di discriminazione. Russell menzionava un talk che aveva tenuto alla London School of Economics, in cui un gruppo di uomini sosteneva che su internet tutti sono arrabbiati, e che la rete è un posto tossico. La sua replica è stata che di sicuro su internet avviene una drammatizzazione degli eventi e delle relative reazioni; ma anche definire internet come solamente tossico e pericoloso, è a sua volta una drammatizzazione. Russell considera il networked feminism un sistema sicuramente imperfetto e alle volte compromesso, ma allo stesso tempo uno strumento potente, che usa lo spazio virtuale per creare comunità e solidarietà tra persone dislocate in tutto il mondo. È un fenomeno che, a parole sue, «rafforza l’anello di congiunzione tra offline e online perché, prendendo ad esempio la campagna #metoo, dimostra come affermare che ciò che avviene in rete è privo di conseguenze, scevro di significato, esente da responsabilità e inautentico, è semplicemente falso». Il networked feminism avvia un dialogo che nasce in rete e si propaga nei caffè, nelle strade, nel mondo. La potenza del networking è evidente: «basti pensare alle Primavere Arabe», aggiunge.
Ma cosa intende esattamente Russell per «femminismo glitch»? Innanzitutto, nel Glitch Feminism, un ruolo centrale lo gioca proprio il tema del corpo. Così come nella «disseminazione corporea» descritta da Caronia, anche per Russell il corpo viene definito dalla riflessione antropologica secondo la quale le rappresentazioni (e le pratiche) relative ai corpi sono sociali, culturali, simboliche, e spesso arbitrarie in relazione alla natura. Ma queste rappresentazioni sono coerenti con altre rappresentazioni, che riguardano religione, relazioni sociali e sistemi di potere. Il femminismo per come lo conosciamo ora è co-dipendente dalle stesse strutture contro le quali combatte: se non le riconoscesse come «in vigore», non esisterebbe. E la sua problematica centrale è la differenza. «Questa differenza – la spaccatura tra quello che si associa a “femminile” e a “maschile” – non potrà mai essere veramente essere ricongiunta finché i costrutti riguardanti il corpo rimarranno invariati», nota Russell.
Afferma il Glitch Feminist Manifesto: «Un corpo identificato come femminile non potrà mai essere considerato “uguale”, perché questo significherebbe la rinuncia ad una serie di privilegi da parte dei corpi identificati come maschili e di coloro che sostengono la mascolinità come una rappresentazione del potere. […] In una società che ricompensa un corpo per essere nato maschio e che identifica il predominio con la mascolinità, sperare in una simile rinuncia è un’illusione». Quello che Russell suggerisce è dunque di ripartire dal concetto di glitch, cioè di «errore»: interpretare ciò che verrebbe comunemente intesa come una «mancanza» come un punto di partenza per l’azione.
Il glitch è il catalizzatore, non l’errore. Il glitch è l’incidente felice. Quando il computer si blocca durante una conversazione, quando il video sta caricando e si rifiuta di progredire, questi momenti sono i nuovi preliminari.
Il termine «glitch» è da tempo familiare al mondo dei linguaggi digitali, si tratti di videogiochi come di musica elettronica. Allo stesso modo, per Russell, «il Glitch Feminism riconosce il ruolo rivoluzionario che hanno avuto le pratiche digitali nell’espandere la costruzione, decostruzione e ripresentazione dei corpi identificati come femminili». Nello specifico, Russell si rifà a ciò che Chris Baraniuk scrive in Feedback, White Noise and Glitches: Cyberspace Strikes Back: «glitch, feedback, rumore bianco, interferenza, statica […] ci ricordano che quello che vediamo sullo schermo è soggetto a uno speciale tipo di entropia che nel mondo fisico non esiste». Nel momento in cui siamo di fronte a questa interruzione, sostiene Russell, recuperiamo una dimensione (anche fisica) che altrimenti non sentiremmo l’urgenza di manifestare, per esempio quando siamo occupati in attività sessuali online, si tratti di sexting come della visione di un filmato porno. «Il glitch è un orgasmo digitale», sostiene il Manifesto, «in cui la macchina sospira, trema, si contrae in spasmi. Questi momenti sono stati integrati nei rituali e nella routine del nostro agire fisico, influenzando come interagiamo con i nostri corpi e come esploriamo le nostre fantasie e desideri più profondi, spronati da queste micro- convulsioni meccanizzate. […] Il glitch è il catalizzatore, non l’errore. Il glitch è l’incidente felice. Quando il computer si blocca durante una conversazione, quando il video sta caricando e si rifiuta di progredire, questi momenti sono i nuovi preliminari».
Nell’ingannevole contrapposizione tra vita reale e vita virtuale, il glitch funziona quindi da collegamento tra quegli io apparentemente divisi: il «singhiozzo pixelato» (un buffering che si interrompe, un video che va in freeze, ecc. ecc.) ci obbliga da una parte a riconoscere la disconnessione che avviene tra corpo fisico e fantasia; ma dall’altra, è il momento di un’epifania in cui possiamo decidere di «scegliere la nostra avventura». Perché «quando la mediazione dello spazio digitale viene meno, anche se brevemente, noi continuiamo dal punto in cui siamo stati interrotti». Proseguendo da dove eravamo rimasti online, «portiamo la rivoluzione offline, ma non al di fuori del corpo, dimostrando così la falsità della dialettica del dualismo digitale».
In questo senso il glitch, sebbene connotato negativamente nell’uso comune, diventa qui non semplicemente «un errore», quanto un intralcio – e assieme una correzione – al regolare meccanismo di una macchina che è a sua volta «un “sistema strutturato” infuso di retorica patriarcale». Il Glitch Feminism è femminismo dell’età digitale, foriero dell’azione virtuale. È una chiamata a scivolare tra le intersezioni, ad andare al di là e attraverso gli stereotipi del corpo, dove per stereotipi del corpo Russell intende (rifacendosi a Judith Butler e Paul B. Preciado) un corpo stereotipicamente maschile che equivale a una persona incapace di rapportarsi al suo lato femminile e – viceversa – un corpo stereotipicamente femminile che equivale ad una persona incapace di rapportarsi al suo lato maschile. Detta altrimenti, il Glitch Feminism è dunque «un’opportunità per valutare dove, con i nostri corpi fisici, possiamo inserirci e creare un errore nella macchina sociale».
Ed è qui che la disseminazione di cui parlava Caronia diventa carica di potenziale politico. Perché la disseminazione del corpo avviene anche attraverso il suo «essere performato», ovvero il suo essere reso visibile sui canali digitali, si tratti di Instagram come di altri social network. Come dice Susie Orbach in Corpi, riferendosi agli avatar di Second Life, «l’assenza di un corpo fisico provoca uno strano effetto sulle persone. Smaterializza l’esistenza e permette la creazione di identità nuove, adatte all’epoca postmoderna. Svanisce l’obbligo di essere limitati dal fisico, dal reale, dalla persona che si è sempre stati»; permette insomma di andare per tentativi, di provare, aggiustare il tiro, tornare indietro: è questo quello che intende Russell quando parla della dimensione ludica e sperimentale della vita online. Allo stesso tempo, coerentemente al rifiuto della distinzione tra online e IRL, quello che un individuo produce in rete produce conseguenze anche sulla sua persona fisica.
Sosteneva Caronia in un’intervista che «l’interazione importante non è quella tra l’uomo e la macchina, ma quella tra l’uomo e l’uomo mediata dalla macchina. Questa nuova dimensione della comunicazione realizza, in qualche modo, una simbiosi tra l’uomo e la macchina, che crea un sistema nuovo. Il corpo in quanto tale non perde centralità, al contrario l’acquista, ma proprio perché le tecnologie digitali ci mettono in grado di superare la dimensione spazialmente localizzata, determinata temporalmente dell’essere corporeo mediato dalla forma fisica, per arrivare non ad una astrazione mentale, non ad un potenziamento delle sole attività intellettuali, ma, al contrario, per rimettere l’insieme delle facoltà e delle opportunità conoscitive del corpo al centro della scena comunicativa. Il processo di disseminazione del corpo nelle reti implica una ridistribuzione, una ridefinizione del concetto di corpo».
È in fondo quello che sostiene Legacy Russell quando nota che guardare artisti che allo stesso modo sperimentano negli spazi virtuali e rendono la loro esperienza pubblica e condivisa, è, a tutti gli effetti, uno strumento per fare dell’attivismo: per ampliare gli orizzonti, spingere i limiti delle definizioni ed aprire prospettive a persone che cercano di capire dove, nel mondo, situarsi con il proprio corpo.