Civitonia, o dell’immaginarsi oltre la fine
di Alberto Marzo
“I visitatori, attraversando il corridoio dopo la porta, avranno modo di immergersi in un posto tranquillo, fuori dal tempo e dal mondo” promette il portale Civita di Bagnoregio – La città che muore al turista che decidesse di acquistare il biglietto d’ingresso, la travel card, o uno dei tanti tour di gruppo.
È una promessa comune, del resto, ai tantissimi centri in abbandono di questo Paese in larga parte montano, oggi riscopertisi borghi loro malgrado, che cercano nel turismo l’ultimo appiglio per un’improbabile rinascita. Tanti piccoli eden, “fuori dal tempo”, ottimi fondali per fotografie utili al turista per testimoniare la propria personale, giornaliera “fuga dalla città”.
Una promessa, però, che a Civita si lega, tutt’altro che velatamente, ad un’altra: quella di poter assistere ad una fine imminente, dovuta alla natura fragile della roccia su cui poggia; una fine per secoli temuta e operosamente contrastata, e oggi proclamata a gran voce, reclamizzata: “venite, venite tutti a vedere la città che muore”.
Non è difficile capire, allora, perché proprio Civita sia diventata oggi l’incarnazione perfetta di un modello turistico monoculturale e massivo, in continua crescita, i cui effetti in termini di museificazione e mercificazione sono sotto gli occhi di tutti. A Civita oggi, ci dice Giovanni Attili nel suo Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni, la vita è sepolta sotto un cumulo di flash. “La fine” così tanto attesa, quindi, sembra essere arrivata, manifestandosi nella sua forma più impietosa: quella dell’impossibilità di abitare.
Ma è davvero un destino segnato, questo? È ancora possibile opporsi alla narrazione asfissiante e pervasiva che vede il turismo, in ogni sua forma, come unico antidoto all’abbandono? È possibile immaginare una storia diversa?
Non è facile riportare in parole quella che è stata un’esperienza intensa, perturbante nel suo senso più stretto, ovvero di quell’angoscia che è anche fascinazione, provocata dal non riconoscere qualcosa che ci dovrebbe essere familiare.
Ci provano, a riscrivere e capovolgere questo destino, le/i ventuno artistз invitatз da Giovanni Attili e Silvia Calderoni ad abitare, indagare, immaginare Civita nella cornice del primo festival di arti performative di Civita di Bagnoregio, Civitonia. Riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento, appunto. Lo fanno a partire dall’attaccamento e l’intimità generatasi durante il periodo di residenza che ciascunə ha svolto tra l’inverno e la primavera del 2021, in solitudine, necessario ad entrare in contatto con l’altra faccia del paese, quella in cui il chiasso e la calca lasciano il posto al silenzio dell’abbandono e della restanza. Lo fanno, soprattutto, perché invitatз a rispondere, collettivamente, a una domanda: può essere l’arte a generare quel processo di ribaltamento delle narrazioni precostituite, di immaginazione di futuri possibili che, a Civita come altrove, sembra più urgente che mai?
Il turbinio di immagini, suoni, riti, installazioni e performance che ha attraversato, o per meglio dire travolto, Civita in un altrimenti tranquillo weekend di metà ottobre, è una prima, dirompente e multiforme, risposta a questi interrogativi.
Come potrebbero confermare coloro – pochi, va detto – che hanno potuto attraversare il paese in quei giorni, non è facile riportare in parole quella che è stata un’esperienza intensa, perturbante nel suo senso più stretto, ovvero di quell’angoscia che è anche fascinazione, provocata dal non riconoscere qualcosa che ci dovrebbe essere familiare.
È in questa ricercata ambiguità, ad esempio, che trovano senso e forza le “interferenze sonore” di Pane per i loro denti, con cui Daria Deflorian, con l’aiuto di Emanuele Pontecorvo, ha riportato a Civita la vita per mezzo di un’installazione audio che costringe lo spettatore ad ascoltare ciò che mai avrebbe voluto sentire: il dolore, la violenza domestica, la vergogna. Nessun compiacimento verso i visitatori, quindi, nessuna indulgenza, ma la verità, seppur riprodotta, della vita della piccola provincia, spoglia di addolcimenti e banalizzazioni utili solo a rendere digeribile il paese al turista, a tramutarlo in borgo, appunto.
“Ma io mi ricordo com’era stare in paese”, dice Deflorian, e non suona poi così diverso da quell’“io mi sentivo morire” evocato dal poeta Vittorio Bodini assieme alla memoria del suo paese natale. Nell’obbligarci ad ascoltare un’intimità che non avremmo voluto sentire, Deflorian ci mette volutamente a disagio, ci ricorda il rispetto per le vite degli altri, così lontane dalle riproduzioni imbalsamate della cartolina bucolica tanto cara alla promozione turistica, e proprio per questo così preziose.
A demolire invece fisicamente effigi e simulacri turistici hanno provveduto i performer/abitanti di Civita di Alessandro Sciarroni, ibrido teatrale, come l’autore stesso lo ha definito, in cui è stata la comunità residente stessa a mettersi in scena, e che ha visto come primo atto proprio la rimozione di targhe e insegne che invitavano al consumo di prodotti tipici e souvenir. A seguito di quest’incantesimo di sparizione, un monologo alla cittadinanza riunita, in cui i confini tra realtà e finzione teatrale appaiono particolarmente labili, ha decretato, fuor di ogni dubbio, lo sgombero definitivo come unica possibilità di salvezza: “Civita andrà sgomberata, il suo ponte demolito”. Sciarroni, nel mettere in scena questa dimissionaria assemblea cittadina, ci pone di fronte ad un inaggirabile paradosso: quando l’abitare non riesce a darsi che in forme predatorie, allora decidere di non abitare è scelta di cura.
Ciò che è davvero in questione oggi a Civita altro non è che il modo stesso della dimora degli uomini sulla Terra.
A Civitonia, però, non sono solo le strette vie del centro storico ad aver preso parte a questa disturbante opera di reimmaginazione collettiva, anzi. Eva Geatti, ad esempio, nella prima serata di festival, ci ha chiesto di spostare lo sguardo verso quella valle in cui da secoli precipitano e si accumulano i resti degli innumerevoli crolli, massa apparentemente indistinta tra i calanchi. In Ascesa di un futuro l’invito è a camminare nella frana, a riconoscere al territorio che circonda Civita un movimento continuo, perché ciò che cade si ricompone altrove, sempre. Lo evidenziano bene, questo movimento ciclico, le scalatrici e gli scalatori che hanno raccolto i detriti e con essi risalito la valle per riportarli al centro del paese, in una sorta di “smottamento all’incontrario”. Gli abiti e le vernici giallo fluorescente, colore ricorrente di questo festival volutamente allucinante, hanno dato forma ad una suggestiva processione laica, notturna, che aveva l’intento di riportare Civita a Civita, accompagnandone i preziosissimi scarti fin sul sagrato della chiesa, cuore della città antica: “sono ritornati i pezzi persi, sono diversi, sono pronti a nuova vita”.
Per aiutarci ad accogliere il capovolgimento continuo, fisico e simbolico, che ha pervaso Civita in questi giorni, la artiste e gli artisti hanno lavorato in primo luogo sugli strumenti e la postura con cui guardiamo il mondo, decostruendoli, ridicolizzandoli persino, per offrire nuove possibilità di senso. Sono loro stessз, del resto, a praticare questo capovolgimento in prima persona, ad abbandonare percorsi già battuti e confortevoli. È così che Damiano e Fabio D’Innocenzo, ad esempio, si fanno, per questo festival, custodi di parole altrui, raccolte nell’antologia O Civita o Morte, presentata nel primo pomeriggio di festival. Le autrici e gli autori dei quindici racconti presentati (i primi di una lunga serie, promettono i giovani curatori) ci parlano di Civita così come sono stati invitati a pensarla, ovvero “come si pensa alle cose amate, a come sia possibile e facile perderle”.
È un lavoro tutt’altro che semplice, ma necessario, quello di sostituire “l’immaginario al posto dell’immagine”, come suggeriscono Francesca Pennini e Vasco Brondi. Una strada possibile, ad esempio, è quella proposta dal loro Sotto alle palpebre, camminata collettiva a occhi chiusi, sulla falsa riga di quei tour che giornalmente infestano le strade di Civita, con la differenza però che il fine dichiarato, questa volta, è di “conoscerla, anziché riconoscerla”. L’atto di esplorazione e conoscenza proposto da Brondi e Pennini non è casuale, ma segue una sua liturgia, utile in primo luogo a disorientarci, a demolire immagini precostituite: prevede compagnз attentз in grado di tenerci per mano, momenti di ricerca solitaria di spazi che ci assomiglino, in cui “ci si sente risuonare”, riti di condivisione dell’esperienza del paese così come l’abbiamo immaginato, e una banda, infine, che, camminando all’indietro, ci accompagna fuori da Civita, senza staccare lo sguardo finalmente ritrovato.
È in questo coesistere di pulsioni contrastanti, quindi, tra il riconoscersi, che presuppone l’avvicinarsi, e il conoscere, che implica la consapevolezza di sapersi allontanare, che hanno trovato posto le opere di questa prima edizione di Civitonia. Una posizione incerta e instabile, certo, ma fertile e nutriente, anche e soprattutto perché in grado di attingere, come spesso fa l’arte, ad un mondo di segni e simboli premoderni, ancestrali, e per questo universali. Dalle proiezioni per piccole comunità temporanee de Il sonno e la Cura di Francesca Marciano e Valia Santella, in cui si immagina un incantesimo che, come un sonno profondo, cali sul paese e lo liberi dall’assedio del turista mordi e fuggi, permettendo la cura e il riposo necessari, sino alla messa in pratica di un vero e proprio rituale magico, La Bugonia, cerimonia di morte e rinascita progettata dalla compagnia Anagoor al fine di permettere “lo sciamare di nuova vita”, così come in antichità era un rito sacrificale a far riprodurre agli apicoltori le api perdute. Rituali e incantesimi contemporanei, mossi da una precisa consapevolezza: “La magia della rinascita andrà cercata nel senso delle cose”.
Nei riti attualizzati, nelle letture all’aperto, nelle numerose installazioni così come nei fitti dibattiti (le conversazioni della sezione Geologia poetica hanno scandito l’intera durata del festival) si sono poste le basi per un percorso impervio, lungo e necessariamente corale, che ambisce a poter riscrivere un destino segnato, ad immaginare futuri altrimenti.
La posta in gioco è alta, non c’è dubbio, ma del resto, come ci ricorda Giorgio Agamben, ciò che è davvero in questione oggi a Civita altro non è che il modo stesso della dimora degli uomini sulla terra. Che la fine di Civita, e quindi la nostra, possa ancora essere riscritta è una domanda che non ha ancora trovato risposta, se non nei passi incerti di uno scalatore in tuta giallo fluo che, in una notte di metà ottobre, ha deciso di raccogliere dei massi caduti in fondo ad una valle per riportali in cima. Non ci resta che seguirlo.
Civitonia. Riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento è il primo festival di arti performative immaginato per Civita di Bagnoregio.