Armageddon capitalista
Lo scorso 8 ottobre ci siamo svegliati la mattina scoprendo il risultato delle elezioni presidenziali in Brasile, vinte dal «Trump dei Tropici» Jair Bolsonaro, un ex militare trasformatosi in politico di estrema destra omofobo e razzista, che pensa che la dittatura militare che ha governato il Brasile fino al 1985 sia stata troppo morbida e dice «non ti stupro perché non te lo meriti» alle avversarie politiche.
Il paragone con Trump a prima vista può sembrare fuorviante. Si regge solo sulle somiglianze nello stile comunicativo e su uscite agghiaccianti come quest’ultima, che fa il paio con il famoso «grab her by the pussy». Diversi analisti hanno sottolineato questo punto, sostenendo che Bolsonaro più che a Trump andrebbe accostato ad al-Sisi o a Pinochet. E invece c’è un senso più profondo in cui paragone sta in piedi: e cioè se intendiamo Trump come la personificazione di un fenomeno che trova nel presidente americano niente più che il suo simbolo mediatico e che poi assume caratteristiche diverse a seconda della cultura politica del paese che contagia. La famosa ascesa dei populismi o risorgenza dei nazionalismi o ritorno dei fascismi, come di volta in volta viene interpretato a seconda del paradigma politico di preferenza di chi lo analizza.
Non è un mero ripresentarsi del passato. Non è, come si sente dire spesso, la storia che si ripete come farsa perché invece di Mussolini che fa le leggi razziali abbiamo Trump che fa le smorfie e Salvini che fa chiudere i minimarket bengalesi. L’aspetto mediatico ci sembra preminente perché invade le cronache, perché non si parla d’altro delle gaffe di Trump e dei selfie di Salvini che mangia gli scampi mezzo nudo mentre parla di chiudere i porti, ma impatta poco o niente sul mondo là fuori. L’aspetto farsesco non esiste irl.
Nei primi giorni di novembre del 2016, subito dopo le elezioni americane, era diventato virale un momento di Twitter intitolato «Day 1 in Trump’s America», che raccoglieva le testimonianze di decine di episodi di violenza e discriminazione contro le minoranze avvenuti nelle prime 24 ore della presidenza Trump. A rivederlo oggi ci rendiamo conto che è un modello che si è ripetuto puntualmente: ne abbiamo avuta una versione italiana nella mappa delle aggressioni fasciste dall’insediamento del nuovo governo. In Brasile Bolsonaro non ha ancora vinto le elezioni, ma girano già video di suoi supporter con magliette con su la testa decapitata di Lula, video di gente che lo vota premendo i tasti della macchina per il voto elettronico con la canna di una pistola e il caso della ragazza che, colpevole di indossare una maglietta anti-Bolsonaro, è stata tenuta ferma da due uomini mentre un terzo le incideva una svastica sulla pancia. Dov’è la farsa in tutto questo?
È vero però che i paragoni con Trump sono fuorvianti. Ci aiutano a inquadrare il contesto, il genere e la specie, ma fraintendono Bolsonaro nello stesso modo in cui viene frainteso Donald Trump: concentrandosi sull’aspetto folkloristico, sulle smorfie facciali dell’uno e l’abitudine a fare la pistola con le dita dell’altro, sulle loro sparate più o meno aberranti. Per capirli invece bisogna ascoltare cosa dice di loro il capitalismo finanziario.
Il fascista terrà al sicuro gli interessi dei capitalisti. Non li si potrà giustificare dicendo che non sapevano chi stavano sostenendo. Sanno esattamente quale sarà il prezzo della legge e dell’ordine. Semplicemente non gli interessa.
Per l’armamentario mediatico di Confindustria, ad esempio, Bolsonaro «fa tornare di attualità i Chicago Boys» (Radio 24) ed è «gradito ai mercati» (Il Sole 24 Ore); la sua agenda economica – spiega ancora il quotidiano – «parla di privatizzazioni, deregolamentazione e decentralizzazione» e il fatto che il suo consigliere economico Paulo Guedes, formatosi all’Università di Chicago, sia un sostenitore delle privatizzazioni di massa «è la principale ragione per cui Bolsonaro è percepito come amico dei mercati, piuttosto che come un altro populista».
E ancora più interessante è quello che ci dice di lui il recente endorsement del Wall Street Journal, che ha tentato in modo maldestro di ripulirlo dai suoi tratti più fascistoidi e renderlo presentabile. Come ha fatto notare Hamilton Nolan, costretto a scegliere tra un candidato di sinistra come Haddad (la cui vicepresidente, Manuela d’Ávila, appartiene al Partito Comunista del Brasile) e un fascista dichiarato, literally Hitler, il principale quotidiano della borghesia finanziaria globale sceglie il secondo. «Il fascista terrà al sicuro gli interessi dei capitalisti. Non li si potrà giustificare dicendo che non sapevano chi stavano sostenendo. Sanno esattamente quale sarà il prezzo della legge e dell’ordine. Semplicemente non gli interessa.»
È chiaro quindi che c’è qualcosa che va oltre il ciuffo biondo di Trump. C’è un modello politico, una linea precisa nelle parole d’ordine populiste. La stessa espressione «drain the swamp» usata per Trump e oggi riferita a Bolsonaro ha un suono sinistro, non c’è contraddizione tra «la palude» degli interessi d’affari e l’uomo forte che di volta in volta dovrebbe «bonificarla». Il senso del fenomeno a cui stiamo assistendo in tutto il mondo – gli uomini forti che prendono il potere in un’apparente lotta contro i poteri forti, costruiscono un blocco nazionale e incassano gli endorsement di Wall Street – è una grande privatizzazione dei profitti.
Mentre sente ancora i postumi della Grande crisi di dieci anni fa e vede all’orizzonte le prime avvisaglie di quella che sta arrivando, il capitalismo è entrato in modalità sopravvivenza e sta mettendo in campo nuovi modelli di gestione. Uno di questi ha il cerone in faccia e mangia solo hamburger e Coca-Cola, l’altro è un fascista che minaccia di morte gli avversari politici.
Al primo turno Jair Bolsonaro ha preso il 46 percento, 49 milioni di voti. Adesso ci sarà il ballottaggio, con le forze democratiche brasiliane coalizzate contro di lui, ma è probabile che vincerà comunque. E allora potrà fare, come aveva annunciato anni fa in un’apparizione televisiva, «il lavoro che la dittatura militare non ha fatto».
Lo scorso 8 ottobre ci siamo svegliati la mattina scoprendo che abbiamo solo 12 anni per agire in modo radicale contro il cambiamento climatico in un ultimo tentativo di salvare il pianeta, stando a un nuovo report del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) delle Nazioni Unite.
Tre anni fa, i leader mondiali si erano incontrati a Parigi per negoziare un nuovo accordo su come contrastare il cambiamento climatico e uno dei punti del contendere era stato dove fissare la soglia di non ritorno. Le nazioni più industrializzate avrebbero voluto metterla a un aumento di due gradi della temperatura media terrestre; un gruppo di una cinquantina di paesi insulari come le Maldive e le Barbados, già oggi a rischio di far la fine di Atlantide e venire inghiottiti dall’oceano, premevano per metterla a un grado e mezzo. Compromesso: ci si proponeva di contenere l’aumento della temperatura entro i due gradi e di fare sforzi per limitarlo a un grado e mezzo.
Il rapporto in questione ha stimolato titoli di allarme e disperazione perché ci dice che molto probabilmente non ce la faremo e che anche se riuscissimo a stare dentro quel grado e mezzo – cosa che comporterebbe l’adozione di «misure urgenti e senza precedenti» – le conseguenze probabilmente sarebbero comunque disastrose: la morte della quasi totalità delle barriere coralline, milioni di profughi per l’aumento del livello degli oceani, un declino nella resa delle colture su scala globale. Per James Hansen, ex scienziato della NASA che ha contribuito nel dare l’allarme sul cambiamento climatico, bisognerebbe tagliare le emissioni del 45 percento entro il 2030 e azzerarle entro il 2050 solo per dare «ai giovani e alla prossima generazione una possibilità di combattere» per tornare a livelli accettabili.
Non c’è bisogno di avere doti divinatorie per sapere che niente di tutto questo succederà – basta osservare il modo in cui il discorso sul cambiamento climatico viene affrontato a tutti i livelli della società. La soluzione esiste, ma non è praticabile. Perché c’è una contraddizione di fondo, che più passa il tempo più si gonfia, tra gli interessi immediati dei responsabili dei cambiamenti climatici e gli interessi a lungo termine della specie a cui tutti apparteniamo. Tra il naturale interesse del Capitale a massimizzare i profitti e quello delle popolazioni – specie di quelle dei luoghi che sono già diventati le linee del fronte del cambiamento climatico – a impedirgli di socializzare in modo drammatico le perdite.
Bolsonaro non è come Trump, che è scettico riguardo al cambiamento climatico e tende a vederlo come un complotto contro gli interessi americani. Lui ci crede ed è fin troppo lucido.
È questa contraddizione che ci paralizza, che non rende praticabile la soluzione, che fa sì che i trattati sul clima restino sempre belle intenzioni e lettera morta. Ed è sempre questa contraddizione che cambia faccia alle forme politiche a cui siamo abituati. Dove queste sono ancora vitali, dove l’ordine democratico e liberale sembra reggere ancora, essa si presenta in tutta la sua forza: così vediamo che persino le nazioni più favorevoli agli accordi di Parigi, mentre con una mano danno la cera con l’altra la tolgono: la Gran Bretagna spinge sul fracking, la Norvegia esplora l’Artico in cerca di petrolio, il governo tedesco progetta di abbattere la foresta di Hambach per scavare carbone.
Questa però è la retroguardia. Guardiamo cosa fanno le avanguardie. Quando nel giugno 2017 Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, l’ha fatto citando motivazioni economiche. Jair Bolsonaro ha già annunciato l’intenzione di seguire il suo esempio, adducendo motivi di sovranità nazionale, e ha anche detto di voler eliminare il ministero dell’Ambiente, aprire le riserve indigene alle compagnie minerarie, abbassare gli standard ambientali per le aziende, bandire ONG come Greenpeace e il WWF dal paese.
Sarebbe ingenuo considerare queste come delle coincidenze e vedere Trump, Bolsonaro e le altre figure ascrivibili all’onda populista come dei pazzi isolati. Su Libération, lo storico francese Jean-Baptiste Freso ha messo in guardia contro «l’affermazione globale di un nuovo asse autoritario e negazionista del riscaldamento globale» che comprenderebbe non solo Trump e Bolsonaro, ma anche il presidente filippino Duterte, i populisti polacchi, l’estrema destra tedesca. Sono i primi prodotti di un processo in corso, i volti di come il capitalismo si sta preparando alla catastrofe ambientale.
Il caso di Bolsonaro è particolarmente eloquente per un motivo: la storia dei rapporti tra Stati Uniti e America Latina, dei vari Pinochet e proto-Bolsonaro che la dottrina Monroe ha incoronato e detronizzato, ha permesso al Wall Street Journal di parlare piuttosto chiaro su cosa sia la sua figura, quali siano i suoi scopi, quali gli interessi che farà. Lui non è come Trump, che è scettico riguardo al cambiamento climatico e tende a vederlo come un complotto contro gli interessi americani. Lui ci crede ed è fin troppo lucido. Sa che sta avvenendo e vede la soluzione non nella riduzione delle emissioni, ma nella riduzione della popolazione mondiale. Privatizzare i profitti, socializzare le perdite, anche in termini di vite umane.
Il 28 ottobre ci sveglieremo la mattina per scoprire l’esito delle elezioni brasiliane e in un senso o nell’altro sarà l’esito di una lotta di classe. Come ha scritto Domenico Losurdo nel suo saggio sul tema (La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, 2015), «la lotta di classe mai (o quasi mai) si presenta allo stato puro», vale a dire come scontro tra classe proprietaria e classe lavoratrice; molto più spesso assume una pluralità di forme influenzate dai rapporti politici e sociali esistenti.
Il fenomeno populista (o nazionalista, o sovranista) a cui appartengono Trump e i suoi vari emuli è una di queste forme, per cui le elezioni brasiliane che vedranno lo scontro tra uno di questi cloni e un candidato progressista ne sono una tappa. È in corso una lotta di classe cruciale e di dimensioni enormi, che si combatte sul terreno del cambiamento climatico e vede in campo le élite contro tutti gli altri, o meglio il Capitale contro specie.
Da una parte c’è la comunità scientifica, che assume le forme di un’avanguardia della specie, che utilizza tutti gli strumenti di pressione di cui dispone per perorare la causa dei nostri interessi comuni; dall’altra la borghesia mondiale, che fin qui ha cercato di conciliare quelle pressioni con la difesa dei profitti firmando qualche protocollo, facendo qualche dichiarazione di forma o qualche limitata misura ecologista, mentre teneva l’altra mano dietro la schiena con le dita incrociate.
L’importanza dell’ultimo rapporto dell’IPCC, il vero e proprio panico che ha scatenato, nascono dal fatto che ci abbia detto chiaramente che la fase in cui questo atteggiamento era possibile sta giungendo ora al termine. Presto gli interessi divergenti non potranno essere più conciliati. Ha fissato anche un termine temporale preciso, una data di scadenza che non è soltanto – come tendiamo a vederla – la data di scadenza delle politiche ecologiche che la nostra società può adottare e dei tentativi che possiamo fare di evitare la catastrofe, ma è anche la data di scadenza delle nostre conciliazioni.
Come ha scritto Naomi Klein – che ha parlato di «capitalismo dei disastri» – per il Capitale la catastrofe in sé non è un problema ma un’opportunità di guadagno. Ci si sta preparando da tempo. È per questo che lungi dal rafforzare il lato della corda di chi vorrebbe evitare il peggio, la comparsa di quel conto alla rovescia ticchettante ha l’effetto opposto: se per il profitto bisogna causare la fine del mondo, tanto vale esser pronti e guadagnarci al massimo.
L’imprenditore Sam Altman ha confessato che lui e Peter Thiel hanno già un piano: salire su un jet privato, volare in Nuova Zelanda e ritirarsi nella proprietà di Thiel, grande come Manhattan, da dove assistere al collasso della civiltà.
Una recente indagine del Los Angeles Times ha scoperto che negli anni Ottanta e Novanta il gigante petrolifero ExxonMobil ha condotto una campagna mediatica di disinformazione per mettere in dubbio il cambiamento climatico, mentre allo stesso tempo finanziava anche altre ricerche, stavolta a uso interno, per capire quali vantaggi trarre da quello stesso fenomeno che pubblicamente negava: così facendo l’azienda ha potuto programmare esplorazioni nell’Artico per quando sarà sgombro dai ghiacci e modificare il progetto di alcuni dei propri gasdotti per adattarlo al previsto innalzamento dei livelli dei mari.
Oggi, com’è noto, i grandi nomi della Silicon Valley stanno comprando terra in Nuova Zelanda per prepararsi all’apocalisse: nel 2016 l’imprenditore Sam Altman ha confessato al New Yorker che lui e Peter Thiel – l’emblema delle ansie per il futuro di quella classe, che nel 2012 ha preso la cittadinanza neozelandese – hanno già un piano in caso crolli tutto: salire su un jet privato, volare in Nuova Zelanda e ritirarsi nella proprietà di Thiel, grande come Manhattan, da dove assistere al collasso della civiltà per poi ricomparire una volta che la situazione si sia stabilizzata.
Non è un piano originale e non c’è niente di casuale nella scelta della destinazione: è tutto anticipato da The Sovereign Individual, un testo del 1997 che parla delle prospettive per l’élite dopo il crollo dell’ordine democratico. Uno degli autori è William Rees-Mogg, il cui figlio Jacob è l’attuale giovane promessa del partito conservatore britannico, e tra i lettori più appassionati ci sono diversi miliardari della Silicon Valley, tra cui Marc Andreessen e lo stesso Thiel.
Evitare la fine del mondo è meno conveniente che specularci sopra e l’unica questione è avere un rifugio sicuro dove superare la catastrofe. Anche questa è una forma di lotta di classe: Peter Thiel è il più importante sostenitore e finanziatore di Trump nella Silicon Valley. Nel 2012, parlando a una conferenza, un altro uomo di Trump – il CEO della ExxonMobil Rex Tillerson, che per circa un anno è stato il Segretario di Stato americano – ha riassunto tutto questo molto chiaramente: «Ci adatteremo anche a questo» perché «come specie ci siamo sempre adattati». Il problema è che non sta parlando di noi.
Il 4 novembre 2020 ci sveglieremo la mattina per scoprire l’esito di un’altra tappa di questa lotta di classe. Fino a quella data, infatti, l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dagli accordi Parigi resta solo un annuncio: c’è tutta una procedura da sbrigare e nel frattempo il paese è ancora costretto a rispettarli. Dal 4 novembre invece quel ritiro può diventare effettivo. E in quello stesso giorno scopriremo anche se Donald Trump avrà vinto il suo secondo mandato come presidente degli Stati Uniti.
Non che una sua sconfitta rappresenti la salvezza del pianeta: come ci ha mostrato l’IPCC, l’obiettivo è decisamente fuori dalla nostra portata e la soluzione c’è ma è impraticabile – è più una scelta tra bruciare e spegnersi lentamente con il Midwest nel ruolo di Kurt Cobain. Semmai il risultato delle prossime elezioni sarà una cartina tornasole per vedere quanto velocemente sta avanzando lo tsunami e quanto manca ancora prima che ci travolga.
«Lo Stato è il comitato d’affari della borghesia» diceva Marx. In questi tempi di frontiera ogni Stato è attraversato da un profondo contrasto tra gli interessi sempre più divergenti delle due parti che lo compongono, quel contrasto che stiamo cercando in ogni modo di contenere e conciliare. La data di scadenza fissata dal report dell’IPCC per evitare la catastrofe ecologica è anche la data di scadenza della possibilità di conciliare quelle divergenze, e dunque la data di scadenza delle forme politiche attuali.
La presidenza Trump è più di ogni altra cosa un importantissimo studio di laboratorio della durata di quattro anni, condotto nella nazione più importante del mondo e principale responsabile della catastrofe climatica ventura. L’esperimento riguarda la costruzione di una forma politica nuova, in grado di costruire un blocco di consenso granitico sotto cui sotterrare proprio quelle contraddizioni la cui esplosione siamo sempre meno in grado di evitare. Il 4 novembre 2020 vedremo se è riuscito o no.
È un esperimento importante perché fornirà preziose indicazioni sul funzionamento dei vari Trump, dei vari Bolsonaro, dei vari governi del cambiamento. Preziose indicazioni in base a cui modulare le altre incarnazioni di quella stessa tendenza che vedremo emergere ovunque nel mondo nei prossimi anni, e con tanta più frequenza quanto più ci avvicineremo all’ora X. Mentre diventerà sempre più difficile ricucire lo strappo, si farà sempre più marcata la divisione tra quelli che si adatteranno, come dice Tillerson, e quelli in cui numero andrà ridotto, come propone Bolsonaro.
Se lo guardiamo in questo modo, come modello di gestione di un capitalismo della catastrofe che si sta già preparando a quello che verrà dopo, ecco che ci balena davanti il vero volto dei cosiddetti populisti: dei pifferai di Hamelin, che suonando l’aria della sovranità incantano i popoli e gli fanno digerire – come faceva notare pochi giorni fa Mediapart – le stesse politiche neoliberiste di prima ma in modo ancor più spudorato mentre li conducono nell’abisso.
Tutte queste sono visioni del nostro futuro prossimo. Ce ne sono del nostro presente, delle forze che dovrebbero opporsi a questa deriva? Eccone una: l’Uomo del buco, l’indio ultimo superstite della sua tribù che da decenni vive solo in una piccola macchia di foresta circondata da ranch in Amazzonia, preso di mira dai proprietari terrieri che di tanto in tanto gli sparano addosso per impossessarsi della sua terra. Nessuno sa il suo nome, che lingua parli né come si chiamasse la sua tribù.