Ed è cosi che rimaniamo nella stiva,
nella rotta sincopata e fuggitiva,
come se stessimo entrando ripetutamente nel mondo
rotto, in rovina, per (rin)tracciare
la compagnia visionaria alla quale unirsi.

Fred Moten, Stefano Harney

Coreografa e performer canadese di origine caraibica, Dana Michel, Leone d’Argento alla Biennale Danza di Venezia nel 2022, porta a Roma la sua ultima produzione, MIKE, in scena di Short Theatre 2024—Viscous Porosity, festival di arti performative diretto da Piersandra Di Matteo. MIKE viene presentata al Teatro di Documenti, spazio cunicolare e a più livelli, interrato sotto Monte dei Cocci a Testaccio: è un attraversamento che si inscrive in una linea curatoriale votata al recupero della memoria storica della scena romana del Novecento. Concepito da Luciano Damiani secondo un’idea drammaturgica e scenografica interessata all’unificazione tra spazio della scena e spazio del pubblico. Un archivio interrato sotto scarti, reperti e rovine.

Dana Michel arriva alla danza, dopo un percorso nel business e nella finanza, rispondendo alla necessità esistenziale di elaborare una critica incarnata al modello produttivo neoliberista che definiva la sua prima professione. La ricerca di una dimensione improduttiva e di una relazione specifica con oggetti e merci, lavoro ed espropriazione del tempo, negli anni l’ha condotta a una metodologia compositiva e a un linguaggio che disossa e disabilita la normatività dei codici della coreografia contemporanea. Nella descrizione del Movimenti radicali neri, di cui scrive Fred Moten, si possono trovare gli strumenti critici per guardare al suo lavoro nell’innesto nelle storie della blackness, nella relazione instaurata con l’oggetto, la cosa, la merce. La storia della blackness testimonia che gli oggetti possono resistere, e lo fanno. Il nero – il movimento esteso di uno specifico sconvolgimento, un’irruzione continua che altera ogni linea – è una tensione che mette sotto pressione il presupposto dell’equivalenza tra persona e soggettività. Mentre la soggettività è definita dal possesso del soggetto di se stesso e dei suoi oggetti, la blackness è turbata da una forza espropriante che gli oggetti esercitano in modo tale che il soggetto sembra essere posseduto – infuso, deformato – dall’oggetto che possiede.

Dana Michel in MIKE testimonia e porta sulla scena questa relazione. Il suo corpo, disperso tra utensili, prodotti, scarti del lavoro e della vita quotidiana, si annulla sino a divenire esso stesso oggetto, cosa, materia. Quasi indistinguibile, racconta degli oggetti e delle soggettività di chi lavora nella logistica e si confonde con la materia stessa del lavoro. Soggetti e oggetti sono spostati, come nelle stive delle navi nella rotta Atlantica, quindi spossessati, dislocati, disancorati. Quella della stiva è un’analogia lanciata da Moten in Undercommons, dove – insieme a Stefano Harney – mette in evidenza la correlazione tra la deportazione degli schiavi e la presenza di forme, legittimate dal neoliberismo, di schiavitù contemporanea, evidente nei lavorator3 della logistica. Scrive Moten: “La logistica moderna fu fondata con il primo grande movimento di merci. Quelle che potevano parlare”. I pensieri raccolti durante l’esperienza di MIKE al MAMbo di Bologna, lo scorso maggio, a cura di XING, diventano nuclei tematici per una nostra conversazione.

L’oggettificazione in MIKE è una forma di resistenza, dispersione, disappropriazione, al limite dell’oblio del sé che stabilisce un legame fondamentale con la storia delle soggettività diasporiche. Come hai lavorato su questi temi in termini di embodiment?

Il collegamento che hai appena fatto con le persone che lavorano nella logistica mi è molto vicino e mi riporta al primo solo che ho creato per me stessa, Critical Path Method, un lavoro che in qualche modo mi continua a perseguitare. Rifletteva il mio passato negli studi di economia. Ero sempre tormentata da come fare, da quale metodologia utilizzare per essere il più efficiente possibile o per riuscire a raggiungere gli obiettivi che ci si aspettava da me. La questione centrale da cui ho mosso i primi passi è stata: come possiamo raggiungere gli obiettivi incessanti e insistenti che ci vengono imposti, cercando di mantenere qualche forma di rispetto per noi stessi, per i nostri ritmi, i nostri bisogni, le nostre proprie metodologie? Stavo riflettendo specificamente sul mondo dei lavoratori perché la grande maggioranza di noi deve avere un rapporto con il lavoro: deve essere lavoratore per essere considerato un membro integrante della società, per potersi sfamare, per avere un tetto sopra la testa. Penso che il modo in cui questo si struttura sia profondamente imperfetto, totalmente insostenibile. Ed è diventato davvero evidente durante la pandemia.

Per quanto riguarda la relazione con la stiva delle navi delle rotte atlantiche, non ci avevo mai pensato in modo specifico. Sono sicura che queste informazioni e questa linea di pensiero siano inscritte e radicate in me a livello intergenerazionale. Spesso mi chiedono perché non faccio questi lavori con altre persone, perché lavoro da sola. Credo che sia principalmente una questione etica: come posso trattare altre persone con la stessa integrità con cui tratto me stessa? Nel mio modo di lavorare mi piace la flessibilità di poter trattare me stessa come oggetto quando è necessario nel lavoro. Quando necessario, mi cimento nella possibilità di infilarmi e scivolare fuori nell’oggettificare me stessa. Penso che in questo ci sia una sorta di rivendicazione, di rivincita. È una risposta all’essere stati forzati a proiettare una funzione, a divenire merce, schiavi, forza lavoro, in alcune fasi del mio lignaggio, della mia linea di discendenza. Ma non ci avevo mai pensato così direttamente fino a quando non l’hai detto tu. È interessante.

Per ogni opera che creo è come se mi offrissi il dono di qualcosa di cui ho bisogno, qualcosa che richiede ascolto, che mi permette maggiore libertà, o che ho bisogno di comprendere. Quest’opera, per me, è stata il dono del tempo

Il movimento del corpo in MIKE è fuggitivo, mai fermo, sempre pronto a cambiare direzione, ad agitarsi in un turbinio di traiettorie, allertato a spostarsi e a spostarci nello spazio. Un movimento che fa risuonare una fuggitività nera, che evoca e accoglie tutti i corpi resistenti, impermeabili, sghembi, rotti, naufraghi, abbandonati, ai margini. È una postura di resistenza, è scarto, disallineamento, frattura, qualcosa che sfugge all’uso. Come hai lavorato con il corpo, come lo hai allenato? Che approccio il tema del lavoro ha messo in campo?

Per risponderti, mi vengono in mente i percorsi a ostacoli che vediamo nei social media, quei giochi in cui qualcuno deve far cadere una pallina in una tazza, poi deve farla scivolare in un altro oggetto, che a sua volta accende un interruttore, creando un circuito complesso, andando da un elemento a un altro. La mia qualità di movimento emerge da lì, dal viaggio, dal percorso che compie il corpo tra ognuno di questi luoghi e di questi oggetti. Se io sono la pallina… penso che il mio primo obiettivo sia quello di cercare di essere il più possibile simile a un oggetto. La pallina viene influenzata da ciò che la circonda. Improvvisamente, ci sono molte persone che la guardano, e possiamo dire che queste persone si trasformano in vento. Sono influenzata dal vento delle persone e così in qualche modo la pallina diventa nebbia. Una palla di nebbia. Per esempio, se molte persone la stanno guardando, il respiro o il vento creato da loro potrebbe influenzare il movimento, e così la pallina potrebbe iniziare a oscillare mentre attraversa il percorso a ostacoli.

La pallina che è in me è influenzata dalla memoria; per questo qualunque ricordo venga attivato dal passaggio tra un oggetto e l’altro, potrebbe influenzare il modo in cui mi sposto verso il successivo. E c’è anche una sorta di score, di partitura che si stratifica nel tempo determinando una complessità e una qualità specifiche. Allo stesso tempo in scena mi chiedo quale siano le mie sensazioni: una cosa a cui guardo è se mi annoio, sono molto diretta, immediata. Devo essere connessa con qualcosa che ha senso per me. Sono allergica all’essere superflua. Naturalmente se ci penso, sono superflua, lo siamo tutti, fa parte della vita stessa. Mi dispongo a divenire porosa.

Una vischiosa porosità, si potrebbe dire. La questione del tempo è un altro aspetto centrale in MIKE. Un lavoro della durata di 3 ore con una struttura interna né lineare né progressiva. Come leggiamo nel programma di sala, la performance sembra dispiegare un’altra ecologia del tempo, invocare un’orizzontalità. È la prima volta che scegli di lavorare su un lungo formato? Quale relazione hai con il tempo e come nutri queste temporalità aliene?

Ogni opera che ho realizzato è stata come un nuovo dono che mi sono fatta. In ogni anniversario di matrimonio c’è un regalo tradizionale, come una perla o un diamante.  Per ogni opera che creo è come se mi offrissi il dono di qualcosa di cui ho bisogno, qualcosa che richiede ascolto, che mi permette maggiore libertà, o che ho bisogno di comprendere. Quest’opera, per me, è stata il dono del tempo, ovvero il dono di poter operare seguendo il mio senso del tempo. Sono stata etichettata come molto lenta per tutta la vita. Mi hanno chiamata “tartaruga” per il mio modo di fare e di parlare. Solo negli ultimi anni ho realizzato che non si tratta di lentezza, quanto piuttosto di densità. Il mio rapporto con il tempo è una questione che mi ha accompagnata per tutta la vita. Sono caraibica, ed echeggia questa idea che i caraibici siano sempre in ritardo, o che ci sia un “tempo dell’isola”, un tempo arcipelagico dove le cose si muovono in modo specifico. Nelle isole la nozione di temporalità è effettivamente molto diversa. Uno dei primi altri paesi che si avvicinano di più ai Caraibi in termini di rapporto con il tempo è stata proprio l’Italia, in effetti. Questo mi ha fatto pensare a come mai, o al perché, esibirsi in Italia abbia per me un significato particolare. Tutto appare un po’ più organico.

Il Sud Globale, e in particolare la cultura creola, subiscono questo disallineamento costante a un tempo imposto come unico, derivante da un pensiero unico. I corpi e i ritmi arcipelagici sembrano ritrarsi applicando una forma di resistenza, stabilendo un rapporto diverso con la trasmissione della memoria. Si parla molto in questi anni del corpo come archivio e dell’importanza degli archivi nella ricostruzione di una storia negata. Se da un lato è un tema centrale nella preservazione della memoria diasporica, l’archivio rimane un costrutto inscritto nelle forme del pensiero occidentale, che non risponde a un possibile esaustività della conoscenza, un luogo pieno di lacune. Nella tua danza, sembra piuttosto presente l’emersione di questi vuoti, di misteri, della parte mancante di questo archivio: il fantasma, il buco, gli scarti. Come parli a questi resti e come lavori sulla memoria diasporica?

L’archivio per me è una questione primaria. Da sempre e per sempre c’è questo senso di mistero che incombe. Mistero non è forse la parola giusta, ma c’è sempre stata la sensazione di un grande vuoto, una mancanza di trasmissione. Gli archivi sono forme di raccolta molto specifiche apprezzate in Occidente. Sto pensando in particolare alla mia esperienza di crescita in Canada o al tempo trascorso nella cultura francese, nello specifico, o al padre di mio figlio, per esempio nella sua famiglia, l’archivio è così importante: ogni disegno che ogni bambino ha fatto viene archiviato in modo molto preciso, con data e ora scritte nei file, ogni cosa è come perfettamente collocata.

Non è assolutamente qualcosa che ho sperimentato, e credo di poter dire lo stesso per molte persone caraibiche. È molto chiaro vedere le radici di questo. Ci è stata tolta questa capacità, tanto tempo fa, storicamente. Quando ho iniziato a creare i miei lavori, organicamente la mia preoccupazione è stata di fare della creazione un presupposto, un modo per andare nelle case della mia famiglia e raccogliere cose che sapevo sarebbero scomparse, oggetti che erano lì e che sapevo nessun altro si sarebbe preoccupato di conservare. E ho semplicemente iniziato a domandarmi: cosa farò con queste cose? Così ho iniziato a metterle nel mio lavoro e a trovare modi per portarle alla luce, per stare con loro, per vedere come avrebbero potuto illuminare questi angoli bui. Questo forse rappresenta la mia idea di archivio.

La lacuna mi richiama lo stato di trance che si percepisce nella performance, nella tua danza si manifesta uno stato di presenza che è insieme, allo stesso tempo, assenza . Sono dimensioni che colgono quest’idea di oblio, rischio, inaddomesticabilità…

Se rimuovo ciò che è socialmente corretto, e semplicemente obbedisco ai miei bisogni mentali e spirituali, questo è il risultato. La scena è il parco giochi della libertà dove posso fare ciò che è necessario: con il mio viso, con le mani, con ogni centimetro del mio corpo posso rispondere alla situazione nel modo in cui tutto questa entità sente che ha finalmente un senso. È come una composizione selvaggia. Un modo inconsueto rispetto a come siamo abituati a comportarci per essere considerati sani, affidabili, intelligenti, nel senso più ampio della parola “intelligente”. È la mia opportunità di smettere con queste gerarchie e vedere cosa ne esce da un corpo non oppresso. Un’offerta: offrire ha questa potenzialità di libertà. Questo avviene quando altre persone sono nello spazio. Non può accadere lavorando da sola in studio.

Possiamo dire che si attiva una forma di contagio. MIKE non è solo una performance, è una pratica, è anche una tattica. È un dispositivo per creare una forma di libertà e per spingere le persone a trovare una propria strada.

In qualsiasi lavoro, mi istruisco con compiti specifici da portare a termine. E lungo il percorso, mentre eseguo questi compiti, ci sono persone che si agganciano. Sono una lavoratrice che fa il suo lavoro. Quindi, supponiamo che debba versare dell’acqua in una giara dall’altra parte della stanza e qualcuno è seduto accanto a quel recipiente. Si crea una conversazione. Mi rivolgo al mio nuovo collega che non sapeva di essere mio collega. Quello che il lavoro mi propone è come un’opportunità di conoscere le persone in un modo in cui non avrei mai potuto contattarle. E MIKE rappresenta per me una domanda e una pratica su cosa fare di tutto questo, sul permettermi di essere osservata, permettere agli altri di incontrare cosa significa essere osservati senza che nemmeno lo sappiano.

La drammaturgia viene dissolta quindi…

Sì, esattamente è una qualità anti-drammaturgica. Una vita anti-drammaturgica. Le performance sono storie per me, è come una titillazione della vita. In momenti come questi, il lavoro si potrebbe chiamare MIKE Lab. Tutta questa faccenda dell’essere vivi per me è sempre la vera questione, solo con contesti, vestiti, luci e tempi diversi. Per me è come se tutto fosse calato in un flusso costante. Una connessione. Di solito c’è una persona che assiste a tutta la performance, e ne partecipa veramente. Sento che questa persona comprende davvero il tempo in cui sto lavorando, che è proprio il mio tempo dei sogni. E finisce per essere una persona fondamentale all’interno del lavoro. Senza saperlo o sapendolo, diventa una specie di collaboratore importante, una figura sostanziale nel processo. La performance sembra offrire qualcosa a questa persona: gli dà il permesso di essere osservata, vista, rappresenta un invito a entrare e a sentirsi a proprio agio con ciò che sta accadendo, in modo più libero.

Questa offerta rappresenta una forma di conoscenza che passa tra corpi, attraverso il tatto, i sensi e la prossimità, “una modalità di sentire che quello che deve arrivare è qui” (Moten, 2021) e sentirsi attraverso l’altro in una forma di contatto e contagio… una forma di amore.

Si, è incredibile, proprio in questi giorni ho un libro in mano che parlava di questo. Non lo trovo, ho una memoria pessima, ma è toccante percepire anche adesso questa connessione. [Tutto sull’amore di bell hooks, n.d.r.]