Mai come oggi i nostri sensi sono bombardati, mai come in questo momento la nostra psiche è stressata a livelli di trincea: quello che percepiamo nella vita quotidiana è infatti una vera e proprio stato di guerra che va di pari passo con i conflitti che stanno creando instabilità in un mondo già di per sé senza pace. Il collettivo Audint, attivo pubblicamente dal 2008, queste cose le aveva già previste e sondate: composto originariamente da Toby Heys (ricercatore digitale presso la Manchester Metropolitan University e precedente membro di Battery Operated), Steve Goodman (alias Kode9, autore di Sonic Warfare e boss dell’etichetta discografica Hyperdub), Patrick Doan (artista digitale) e Souzanna Zamfe (una ricercatrice russa con obiettivi quali futuro e sonologia), dopo una serie di lavori seminali su dischi, cassette e libri sono tornati con una specie di audiolibro fantascientifico, Ghostcode. I nostri lo stanno promuovendo in giro con serate speciali ( ad esempio è prevista una sei ore di colonne sonore di film di fantascienza a New York) e ovviamente con delle interviste: abbiamo pensato di farci raccontare di persona questa loro ultima fatica parlando proprio con Toby Heys.
Partiamo subito dalle basi: il progetto Audint è un collettivo…
Sì, esattamente.
…e il significato del suo nome è audio intelligence. Quindi si parte dagli esperimenti con i significati e i significanti dell’audio. I non suoni, i suoni che non possiamo ricordare con i nostri sensi. Cosa vi ha spinto a iniziare questa avventura di ricerca?
Abbiamo iniziato come un modo di riflettere su come l’esercito utilizzi il suono. Come i militari, i governi e le aziende funzionalizzino il suono. Come producano suono, musica, e non-suono, infrasuoni inferiori a 20 hertz e ultrasuoni superiori a 20.000 hertz: interrogarsi su quale è la funzione utilitaristica di tutto questo. Quando si pensa alla musica non c’è solo l’ aspetto ovvio, cioè far sentire le persone felici o farle ballare. C’è l’altro lato della medaglia. È l’aspetto che si basa più su come si possano influenzare le persone, su come sia possibile manipolarle e torturarle tramite quel media.
Sai, nell’esercito ci sono gruppi diversi. Hai SIGINT, che è l’intelligence dei segnali. C’è COMINT, che è l’intelligence delle comunicazioni. Ma non c’era un’intelligence audio. Quindi abbiamo pensato, ok, ci chiameremo “intelligence audio” perché non ce n’è una. Diventeremo un’intelligence ma anche un’intelligenza audio, come una specie di strana interfaccia per una sorta di comprensione militare e culturale del suono e della musica.
Nel 2014 avete realizzato Martial Hauntology. C’era un concept particolarissimo che riguardava i soldati fantasma del Vietnam, vero?
Sì, come l’ operazione Wandering Soul, in cui gli americani tentavano di terrorizzare i soldati vietnamiti riproducendo suoni demoniaci da altoparlanti in mezzo alla foresta. Oppure l’ uso delle registrazioni dei suoni degli elicotteri…. Ma non si trattava solo di questo: si trattava di qualcosa di più, riguardava il concetto di “esercito fantasma”. L’esercito fantasma era questo: nella seconda guerra mondiale usavano enormi sistemi di altoparlanti. E poi registravano i suoni su diversi giradischi. E suonavano e poi mixavano i dischi insieme. Furono i primi “battle Djs”. Ma veri DJ da battaglia, in tutti i sensi. Lo facevano durante la guerra. Missavano i suoni per far sembrare che ci fosse un carico di truppe in giro anche se non c’era anima viva. E simulavano col suono un carico di armamenti, carri armati e attività per ingannare i nazisti facendogli pensare, “oh, non andremo lì perché c’è un sacco di gente laggiù. Andremo dalla parte opposta”. Ma ovviamente, una volta deviati lì, avrebbero trovato molte persone ad aspettarli, armate fino ai denti. Quindi il punto è l’inganno sonoro, il suono usato per ingannare.
Quando avete iniziato questo progetto, qual è la cosa che vi ha fatto dire, “oh, dobbiamo fare qualcosa al riguardo?”
Penso che sia stata l’esperienza di entrare in un club di drum and bass (ride). Entrare in un club e trovare questa enorme e pura potenza, lo spazio in cui i bassi e tutto il resto ti colpiscono… Beh, per molte persone è davvero offensivo. Ed è davvero come chiedersi: “perché dovrei voler affrontare tutto ciò?” – è come affrontare una prova di resistenza. Penso che si potrebbe chiamare “estasi nera”. Le cose stanno così: puoi andare e godertela e sarà l’esperienza più viscerale e bellissima della tua vita. Oppure, se va storto, sarà orribile e terribile, e ti farà sentire come se fossi stato in guerra o qualcosa del genere. Quindi si entra in quella situazione per cui capovolgi tutto tentando di capire entrambi i modi di viverla. E normalmente ne afferriamo il lato buono e il lato positivo, ma non comprendiamo tanto quello oscuro.
E se prendi la droga sbagliata il problema si ingigantisce, non è vero?
Esattamente. Se le cose vanno male in quel senso vanno davvero, davvero male, molto velocemente (ride).
Quindi questo vostro immaginario, il vostro concept, possiamo esprimerlo non solo a parole, ma anche nei fatti: a parte il drum and bass, questo discorso “bellico” è presente anche nella musica pop di oggi, giusto? Perché per esempio la loudness war non si chiama così per caso. Ci sono un sacco di ambiguità su questo uso dei suoni, come fosse sempre una perenne battaglia, dalle classifiche sino alle filodiffusioni nei bar. Come se fossimo sempre in una guerra psicologica del suono, giusto?
Sì, sì, sì. Voglio dire, immagino che sia in parte come l’idea di Virilio in cui la città intera è una macchina da guerra. L’idea della città come macchina da guerra è qualcosa che prepara costantemente gli abitanti urbani al conflitto. Che si tratti del conflitto del capitalismo, che si tratti di un conflitto sensoriale, che si tratti di un conflitto politico… Ci allena sempre. E la musica ne è un ottimo esempio: come ho detto, pensa a quando entri in un club di drum and bass: è una roba proprio martellante ed è enorme. E poi tu assumi cose o fai cose al tuo corpo, entri in altre modalità sensoriali. È come se ti stessi addestrando, è come la Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamoci che i militari americani davano ai soldati LSD per vedere come avrebbero agito in una determinata circostanza. Quindi è un po’ come se ci fosse tutta questa roba crossover in cui iniziano e finiscono l’esercito e la cultura. E foraggiandosi a vicenda alimentano le tecnologie.
È come con il computer, internet e tutto il resto. È tutta roba nata in un contesto militare.
Sì, assolutamente. Molte tecnologie come il vocoder, ad esempio, venivano utilizzate dall’esercito americano per analizzare e sintetizzare la voce umana. E poi, ovviamente, la cultura hip hop lo riprende. E, sai, è come se la cultura nera emarginata ne ribaltasse il senso facendo qualcosa di completamente diverso e portandolo altrove. Ma poi c’è sempre questo circolo vizioso tra il conflitto e la vita civile, per così dire.
Avete un approccio molto trasversale, giusto? Perché voi trasformate le vostre tracce sonore in un’installazione vera e propria. C’è una modularità, giusto?
Sì, è assolutamente super modulare. Ma abbiamo sempre pensato come di avere una spina dorsale narrativa sai, come una metanarrativa. E poi tutte le cose che si collegavano tra loro erano come capitoli. Quindi un disco è un capitolo plug-in. Una performance è un capitolo plug-in. Il software un capitolo plug-in, una cassetta è un altro capitolo plug-in… Si estendono tutti. Hai questa narrazione principale e poi gli elementi della narrazione che vengono esplorati attraverso diversi media. E questo potrebbe avvenire attraverso qualsiasi cosa, con qualsiasi cosa abbia senso. Potrebbero essere cassette o dischi, ma potrebbero anche essere libri, potrebbe essere un software. Oppure potrebbe essere un qualche tipo di cibo. Abbiamo già fatto cose con il cibo in passato: l’abbiamo fatto al Mira Festival di Barcellona, dove stavamo lavorando con SubBase.
E come trascrivi questo approccio teorico del suono nelle tue tracce? Mi affascina il modo in cui utilizzate tutte queste pressioni sonore e il lavoro del suono che fate sul corpo… Ricordo quella bellissima installazione con dispositivi militari a ultrasuoni, per esempio.
Abbiamo lavorato tantissimo in spazi bui. Quindi spazi neri, oscurati, che hanno altoparlanti a ultrasuoni, che sono molto direzionali e devi attraversarli: quello è il raggio del suono e devi passarci attraverso, altrimenti non lo senti. Lavoriamo con gli infrasuoni, quindi bassi molto bassi, da 17, 18 hertz: puoi sentirlo su di te, sulla tua pelle, ma non puoi ascoltarlo. E poi abbiamo delle cose nella stanza, cioè devi cercarle come con una torcia, ma abbiamo una torcia con cui difficilmente puoi vedere. Quindi devi trovare cose con una torcia che non funziona davvero. Tutto riguarda cose che sono al limite della percezione. Questa è un’idea davvero importante all’interno di Audint. Fenomeni che esistono ai margini della percezione. Cosa succede al nostro pensiero? Cosa succede al nostro agire? Cosa succede alla narrazione quando il tuo cervello non riesce a percepirla davvero nel modo in cui vuole perché non riesci a sentirla bene, o le tue orecchie non registrano sotto i 20 hertz o hai problemi visivi? Se i tuoi occhi risuonano a 18 hertz? In quel caso ottieni qualcosa chiamato “sbavatura visiva”, che ti dà allucinazioni periferiche. Tutto quel genere di cose, ovvero giocare con il sensorio, con i meccanismi sensoriali, è davvero importante: è come tornare al discorso del club drum and bass, quando entri e hai quell’esperienza che ti porta in un posto completamente diverso. E stai solo lottando per cercare di mantenere una sorta di… sanità mentale, immagino.
Futurismo a parte, sono cose molto vicine alle teorie di William Burroughs. Il concetto di suono come arma… Sei connesso con le cose di Burroughs o no?
Sì, assolutamente. Avevo una connessione molto diretta col suo pensiero. Conoscevo Genesis P Orridge: quando vivevo a New York frequentavo Genesis, quindi ho un collegamento piuttosto bizzarro con Burroughs attraverso Genesis, perché molte delle cose di cui parlavo con Genesis riguardavano il suono come arma. Ovviamente pensiamo ai Throbbing Gristle, concerti in cui chiudevano le persone dentro e le costringevano ad ascoltare cose, ovviamente è così: sai che è stato davvero istruttivo per me da giovane, era proprio una cosa come “cazzo, non sapevo che si potesse fare una cosa del genere!” Genesis era proprio così: è ovvio, tutto è permesso se permetti che accada!
E quindi c’è anche questa teoria del continuo vibrazionale, ben espressa nel vostro Unsound Undead. Cosa intendi? Perché noi siamo la vibrazione, siamo fatti di vibrazioni, ma nel tuo lavoro quali sono quelle che attivano una nuova percezione del mondo?
L’intera faccenda degli Audint è pensare sempre al mondo e rifletterci su. Il modo in cui raccontiamo il mondo, il modo in cui ci orientiamo nel mondo, pensarci da un punto di vista che non è basato sull’uso degli occhi, pensare a un mondo di cui parliamo e al nostro mondo, alle nostre idee e alle nostra verbosità. La nostra grammatica si basa tutta su ciò che ascoltiamo e su ciò che percepiamo, quindi anche sulle vibrazioni. Probabilmente c’è solo un’affermazione che puoi fare sull’universo che è sempre stata vera, lo è ancora e lo sarà sempre: è che tutto si muove. Come concetto è davvero semplice, ma tutto si muove.
C’è una teoria narrativa pensando a come il suono viene utilizzato come arma per il futuro, ma anche a come il capitalismo inizia a cambiare intorno alle “corponazioni”, quando gli Stati e le multinazionali iniziano a diventare la stessa cosa reinventando il capitalismo
Anche i colori sono vibrazioni.
Sì, assolutamente, ecco perché vediamo il rosso. Ad esempio viene usato il rosso su porte o sistemi di emergenza perché è il primo spettro di frequenze che noi in realtà vediamo, il primo colore che gli occhi possono registrare. Tutto è basato sulle frequenze.
Da qui il fatto che lavori molto con la spettrografia del suono perché dentro una traccia possiamo piazzare un suono fantasma ,che possiamo scoprire solo con la tecnologia di analisi delle frequenze. Ci sono messaggi segreti sepolti nella nostra vita normale acustica, quindi sei come uno speleologo, o anche archeologo del suono…
In effetti mi piacerebbe trovare dei diamanti nascosti che potrebbero essere utili a risolvere un sacco di problemi (ride).
Stavamo parlando dei colori: il vostro packaging è molto interessante, le confezioni dei dischi e dei libri sono molto particolari… Chi si occupa delle grafiche?
Abbiamo persone diverse che lavorano sulla grafica ma abbiamo un modo di pensare davvero prestabilito: abbiamo una certa gamma di colori, e ne usiamo solo sei. Un arancione, un rosso, un bianco e un nero e un verde, poi usiamo il blu. Usiamo solo quei sei colori in ogni packaging, il design e di solito è piuttosto minimale, e abbiamo sempre combattuto molto da vicino su come funziona il design.
Parliamo del nuovo doppio album Ghostcode perché è molto, molto interessante. In che senso è una colonna sonora? Si tratta della sonorizzazione di un graphic novel? di cosa si tratta?
Ghostcode è il secondo step nella Martial Hauntology: quest’ultimo era un disco e alcune cartoline ma era anche un libro, incorporato nell’album. Non è un libro grande, è qualcosa di piuttosto breve chiamato Dead Record Office e fondamentalmente raccontava la storia degli Audint dal 1944 attraverso il contemporaneo, come il 1990-2000, una cosa del genere. Ghostcode racconta invece la storia degli Audint dagli anni Novanta fino al 2064, quindi è molto futuristico, è molto speculativo, c’è una teoria narrativa pensando a come il suono viene utilizzato come arma per il futuro, ma anche a come il capitalismo inizia a cambiare intorno alle “corponazioni”, quando gli Stati e le multinazionali iniziano a diventare la stessa cosa reinventando il capitalismo. Ci sono molte cose sull’intelligenza artificiale all’interno del libro… è anche una specie di grande critica al modo in cui la povertà e il dolore sono feticizzati dall’industria musicale. Ad esempio, per quanto riguarda le persone provenienti da un background duro della classe operaia: la loro musica è ciò di cui si ciba ovviamente l’industria musicale. Guardiamo al blues, al jazz o, in una certa misura, all’ hip-hop: poi arriva la musica della classe operaia bianca col punk e poi arriva la musica drill, il grime… Voglio dire, è una cosa infinita: l’industria musicale ama vendere questa idea che il dolore e la povertà sono davvero buone. Quindi il libro è una grande critica al riguardo: si parla di “campi di dolore”, c’è quest’idea latente. Nel capitalismo ci sono questi virus sonori che combattono l’uno contro l’altro come soldati, e che le persone usano gli uni contro gli altri, ma la cosa che alimenta il virus è il suono del dolore: quindi producono città come ghetti o favelas dove le persone soffrono, hanno orribili dipendenze dalla droga e vengono registrate, quindi ci sono dei microfoni ovunque nei loro appartamenti per strada che registrano il suono del dolore e quel suono di dolore alimenta questi virus.
In realtà l’approccio al pubblico è molto peculiare per voi: perché non è solo suono, è anche una questione di lavoro trascinato da una teoria che sa interpretare la nostra società contemporanea e allo stesso tempo si apre al nuovo che dà risultati diversi nel vostro suono/ arte multidisciplinare. Visto che non ci viene in mente nessuno come voi, c’è qualcuno a cui ti ispiri o qualche artista a cui ti senti più vicino con cui magari hai collaborato (visto che ne frequenti molti)?
Ovviamente c’è un numero enorme di persone che influenzano il progetto, ma penso probabilmente che in termini di riflessione sul lato teorico-fiction, le cose I Drecxiya siano davvero estremamente importanti per noi: i loro miti e tutto il resto, tutto il lavoro intorno… Tutto il loro suono è basato sulla loro narrativa, sul passaggio di mezzo e sulle donne incinte che vengono gettate in mare e su un gene mutante che poi permette alle persone di respirare sott’acqua . Si parla molto in generale di afrofuturismo: si’, hai i Parliament, hai Sun Ra e blah blah blah, ma la parte veramente importante di quel puzzle sono i Drecxiya: non puoi capirlo senza i Drecxiya. Quindi penso siano davverosuper influenti perché non hanno solo la musica, hanno la teoria e poi hanno anche i libri e via discorrendo.
È anche difficile per te che conosci il sistema culturale farti mettere in una scatola… In un colpo solo siete artisti, siete narratori, siete studiosi …non è facile classificarvi.
Certo: siamo anche scrittori, teorizzatori…
Ma in effetti se tu dovessi descrivere la tua musica, o non musica, come lo faresti? Perché in questo ultimo disco possiamo ascoltare un po’ di vaporwave, un po’ di alta definizione, un po’ di “concrete trap”, possiamo parlare di suoni paranormali o qualcosa del genere perché ci sono anche questo genere di cose…Se tu dovessi appiccicare un’etichetta sul tuo lavoro cosa diresti?
Mi fai questa domanda proprio dopo aver semplicemente detto che non esiste un’etichetta che potrebbe funzionare con noi? (ride)
Sì, chiaro! Perchè una cosa è l’ etichetta che ti danno gli altri una cosa quella che ti dai tu.
Il disco che abbiamo appena fatto è davvero, davvero diverso da Martial Hauntology. Martial Hauntology è spoken word: un pezzo da 20 minuti da un lato, da 20 minuti dall’altro, entrambi parlati. Il nuovo disco, non è affatto così. Campioniamo la voce di tanto in tanto, ma è un vero e proprio mix a base di industrial che incontra la colonna sonora che incontra la musica concreta che incontra la musica cinese e la wonky electro… È davvero diverso, questo disco è una bestia differente. Penso che sia davvero la colonna sonora del libro. Funziona in un modo diverso da Martial Hauntology: funziona come un vero e proprio disco, come un’uscita prettamente musicale, in vinile. Quindi, ancora una volta, stiamo allargando il campo. Nello stesso modo abbiamo fatto anche tre uscite su cassetta, pubblicate da Boomkat: erano tutte registrazioni dei precedenti membri degli Audint. Perché nella storia degli Audint siamo solo l’ultima iterazione del gruppo. Ci sono altre due iterazioni negli anni Sessanta, indietro negli anni Quaranta… Noi siamo solo l’ultima versione. E probabilmente faranno in futuro un’altra versione di cui non facciamo parte. E il suono funziona in modo diverso per ognuno. Le cassette sono concepite come registrazioni del passato. Sono come registrazioni d’archivio dei nostri ex membri. Ancora una volta, il suono funziona in un modo davvero diverso – un modo per archiviare e come memoriale per le persone del passato, colleghi del passato che cambiano ogni volta. La natura del modo in cui ci avviciniamo all’idea di musica e suono, dipende dal concetto di esso, e così cambia. Una colonna sonora è diversa da un archivio, è diversa dallo spoken word. Proviamo a cambiare spesso ciò che stiamo facendo.
E questo riflette anche il modo in cui lavorate, perché ci sono alcuni membri fondatori, ma allo stesso tempo siete tutti indipendenti come delle monadi: isole che collaborano tra loro, come un sistema aperto e continuo.
Sì, questo ci ha sempre interessato. Siamo sempre davvero interessati a provare a cazzeggiare con l’“autorialità” dell’autore. Cosa significa essere un autore? Cos’è fare qualcosa? Cosa succede quando inizi a lavorare con altre persone in termini di collaborazione? Come si può realmente estendere la nozione di collaborazione, piuttosto che solo due persone in studio che collaborano o la band in uno studio che collabora e poi va in tour? Molte delle nostre cose, come Ghostcode ad esempio, hanno dei concetti principali alla base: quest’ ultimo è che noi lavoriamo, ma lavoriamo per volere di un’intelligenza artificiale canaglia dietro Audint che controlla il gruppo. E così tutta la roba che noi facciamo la facciamo per l’intelligenza artificiale: l’AI ci controlla e ci chiede di fare cose perché sta cercando di scaricare la sua memoria nella nostra coscienza e nella memoria umana. Sta cercando di distribuirsi all’interno della cultura in modo che se le venisse cancellata la memoria potrebbe ricostruirla mettendo insieme il tutto attraverso dischi, libri, recensioni, film… tutto il resto che esiste nella cultura. Quindi siamo proprio come macchine per questa intelligenza artificiale – siamo proprio come dispositivi di registrazione. I nostri ricordi sono soltanto dispositivi che desidera utilizzare. Siamo in un certo senso semplicemente girando intorno al tipo di formula dell’agire uomo-macchina, cazzeggiando e dicendo “beh, facciamolo”. L’intelligenza artificiale è la cosa che guida tutto e ci sta semplicemente usando come burattini di carne.
Cosa pensi del futuro dell’arte in questo senso?
Penso ovviamente che l’intelligenza artificiale cambierà completamente la nostra idea della produzione e la nostra nozione di creatività. E non penso che l’intelligenza artificiale sia qualcosa di cui avere paura. Voglio dire, è come essere agitati per la paura dei campionatori negli anni Ottanta. Se hai dei campionatori, non ha senso essere un musicista jazz o soul perché puoi semplicemente dire quello che vuoi, sai: puoi semplicemente campionare tutto. Non devi suonare un genere: rubi semplicemente qualunque cosa. E naturalmente, di nuovo la cultura hip-hop ha fatto un uso straordinario del suono dei campionatori, con lo spirito del “lo faremo e basta”.
Impareremo a lavorare con l’intelligenza artificiale e l’intelligenza artificiale sarà massicciamente controllata in futuro. Perché in ogni caso, non è possibile che rimanga tutto aperto e libero così com’è oggi. Arriveranno i governi a metterci le mani, ci saranno implicazioni legali riguardo all’intelligenza artificiale, già il New York Times ha fatto causa a Open AI per violazione di copyright… Finora tutto è semplicemente gratuito, è proprio tutto come “oh, usiamolo!”, ma non resterà così. Sarà impossibile: è proprio il capitalismo a non permettere di essere liberi e aperti. Ti ricordi quando tutti si scambiavano musica? E poi ovviamente tutta l’industria discografica e tutti i guardiani dei contenuti dicevano: be’, aspetta un attimo: se tutti si regalano musica a vicenda, come facciamo a guadagnare? E ovviamente il capitalismo risponderà e l’intelligenza artificiale verrà bloccata e rimarrà vincolata al diritto d’autore, il che influenzerà anche il modo in cui creiamo.
Quindi oggi come oggi fare arte è fondamentalmente imparare.
Certo: l’ arte apre diverse prospettive, diversi modi di capire come comprendere il mondo, ma anche come navigare e orientarsi in quest’ ultimo. L’AI ci fornirà una prospettiva completa dei sistemi di prospettiva della macchina davvero diversa e interessante di come orientarsi e navigare nel mondo, dai sistemi di traffico ai giornali alle gru fuori dalla mia finestra, qualunque cosa. Cambierà completamente il modo in cui comprendiamo cosa è possibile nel mondo: e questo è potenzialmente davvero interessante.
La storia che lega l’essere umano alle mappe è lunga e diversificata. Se ne ritrovano tracce fin dal Paleolitico e sui muri delle grotte di Lascaux dove sono stati osservati dei puntini dipinti databili al 16.500 a.C., una rappresentazione del cielo notturno in cui si possono riconoscere Vega, Deneb e Altair (il cosiddetto triangolo estivo), nonché le Pleiadi. Curiosamente le prime mappe conosciute non erano dedicate alla terra ma all’esplorazione dei cieli notturni; una vocazione alla conoscenza, questa, che sembra andare al di là del desiderio di territorializzazione che ha mosso tanta produzione cartografica dei secoli successivi.
Una delle mie antiche mappe preferite è il disco di Nebra, un disco di bronzo intarsiato con lamine in oro e risalente al XVIII o XVII secolo a.C. su cui sono rappresentate la luna piena, la luna calante e di nuovo le Pleiadi. Non ci è dato sapere che tipo di utilità avesse questo oggetto, se fosse un ornamento, un oggetto magico-rituale, un oggetto didattico o altro; quel che appare evidente è che gli elementi che lo compongono non sono casuali, ma sono il frutto di osservazioni astronomiche approfondite. Questa antichissima vocazione alla produzione di mappe e cartografie oggi sembra ancora più essenziale, in un mondo che ha fatto di modelli e confini l’oggetto della propria definizione e che tende invece a spostare continuamente individui, oggetti e risorse.
Tutto questo è alimentato da un’ulteriore ambiguità di fondo: lo stesso concetto di spazio è oggi in crisi, la rete ha annullato ogni possibile distanza proiettandosi nel mondo globale. Nel frammento Del rigore della scienza, contenuto all’interno della raccolta Storia universale dell’infamia (pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi riveduto e corretto nel 1954), Jorge Luis Borges racconta dell’ambizione di un imperatore di costruire una mappa talmente dettagliata del proprio regno da richiedere una scala 1:1 per la sua rappresentazione:
«[…] In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all’Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche».
Con questo racconto Borges ci invita a riflettere sul ruolo preponderante del linguaggio scientifico come strumento di rappresentazione e sull’ambiguità del suo rapporto con la conoscenza. Come possiamo facilmente evincere dal racconto, una mappa di questo tipo diventa illeggibile e dunque inutile: una volta che smette di essere un simbolo, essa non è più in grado di sottrarsi alla complessità del reale.
In un testo del 1981, Jean Baudrillard parte proprio da questo racconto di Borges per affermare come, con l’avvento dei mass media, simulacri e simbolismi della cultura di massa si siano profondamente radicati nella realtà percepita al punto da divenire indistinguibili. Dall’avvento della computazione in poi e oggi con l’affermarsi di tecnologie avanzate basate sull’intelligenza artificiale ci troviamo costantemente a misurarci con modelli discreti di rappresentazione del dato di fronte ai quali occorre farci delle domande ben precise: quali sono le limitazioni di questi modelli? Come l’architettura tecnologica sostiene questi modelli e i loro limiti? In che modo i modelli coincidono con quello che viene plasmato dalle tecnologie stesse?
Compito degli aspiranti cartografi è la definizione di nuovi spazi e di nuovi percorsi in grado di far luce nell’oscurità computazionale
La linea attuale del progresso tecno-scientifico sembra replicare ed estendere logiche preesistenti di accumulazione e colonialismo, come ci fanno notare Ben Vickers, K Allado-McDowell, curatori del volume Atlas of Anomalous AI: «Il capitalismo ha sempre avuto una dimensione spaziale. È sempre dipeso dalla terra per l’accumulo di ricchezza». Proprio l’intelligenza artificiale, a una lettura approfondita, appare come un territorio dominato da risorse estrattive, cioè i dati; i dati, a loro volta, determinano l’attribuzione dei server, la proprietà dei software e gli algoritmi in grado di elaborarli. Come afferma Matteo Pasquinelli in Atlas of Anomalous AI, «l’architettura dell’AI può essere una black box ma il suo territorio non lo è». Ripartire allora dall’esplorazione di questo territorio è al centro delle pratiche di artisti, attivisti e ricercatori. Vi è una costellazione di ricerche che nascono con l’obiettivo di riscrivere cartografie che abbiano a che fare con la complessità del mondo interconnesso secondo un approccio che potremmo definire forense, ossia volto a ricostruire una fenomenologia a partire dai suoi processi interni.
Ne è un caso interessante il lavoro condotto dall’attivista dei diritti umani María Salguero, che a partire dal 2016 inizia a raccogliere dati, spesso direttamente e recandosi sui luoghi delle cronache, per rintracciare i casi di femminicidio in Messico e colmare così le lacune lasciate dai documenti ufficiali. Per ogni episodio, Salguero inserisce un pin su una mappa, arrivando a raccogliere e classificare informazioni dettagliate su oltre cinquemila casi e andando così nel giro di pochi anni a mostrare l’evidenza di un fenomeno tutt’altro che irrilevante per il Messico.
Le mappe sono uno degli strumenti di indagine principali anche per il gruppo di ricerca multidisciplinare Forensic Architecture, fondato all’interno della Goldsmiths University of London e diretto dall’architetto israeliano Eyal Weizman. Un esempio tra i tanti possibili del lavoro del gruppo è la ricostruzione degli scavi archeologici intrapresi a Gaza dal 1995 al 2005 che rivelano la presenza di strutture di epoca romana ed ellenistica poste a rischio dai bombardamenti israeliani. In collaborazione con giornalisti a Gaza e all’estero, residenti e archeologi, Forensic Architecture ha raccolto, verificato e localizzato centinaia di prove e ha utilizzato tecnologie di modellazione 3D per ricostruire la trasformazione dell’area, in quello che è un esempio pionieristico di applicazione di tecniche di indagine visiva open source a un sito di interesse archeologico. Il presupposto di questo progetto ruota attorno al concetto di gestione del patrimonio culturale come forma di controllo e di esercizio del potere. Come afferma lo stesso Weizman, «privare un popolo della sua cultura equivale a svuotarlo della sostanza stessa che costituisce la spina dorsale del suo diritto all’autodeterminazione». Rendere visibile il dato equivale invece in questo caso a restituire parte di ciò che si è perduto, a sostituire l’evidenza con l’oblio.
Altro caso emblematico di utilizzo dell’approccio forense e cartografico è quello dell’artista statunitense Trevor Paglen, che si definisce geografo sperimentale e che concentra le sue indagini sulla possibilità di tradurre in metafore visive le immagini frutto dello sguardo tecnologico della macchina. Ne è un esempio il progetto Landing Sites, in cui Paglen esamina le infrastrutture materiali di Internet e della sorveglianza di massa, individuando e fotografando i principali luoghi di snodo in cui più cavi sottomarini raggiungono la terra e collegano insieme i continenti. Ogni fotografia di questa serie risponde a due “regole”: in primo luogo, la congiunzione dei cavi internet deve essere all’interno della cornice dell’immagine; in secondo luogo, la linea dell’orizzonte deve esserne il centro. Questo set di regole rende le immagini, accompagnate dalle mappe che mostrano le infrastrutture, ancora più astratte, perché rivelano la distanza tra ciò che normalmente è visibile e le dinamiche invisibili delle stesse architetture di internet. Più tardi, lo stesso artista in Deep Web Dive si immergerà letteralmente nelle profondità sottomarine nel tentativo di toccare con mano tali infrastrutture.
Particolarmente significativa in quest’ambito è l’esperienza dell’artista e ricercatore serbo Vladan Joler che ha fatto della cartografia lo strumento principale di indagine in grado di rivelare le dinamiche complesse dei sistemi di comunicazione digitali. Fondatore del Research & Investigation Share Lab, Joler conduce indagini basate sulla raccolta dati e la produzione di vere e proprie mappe. Nelle scorse settimane, con Calculating Empires: a genealogy of technology and power, 1500-2025, la Fondazione Prada Osservatorio a Milano gli ha dedicato una mostra che raccoglie il lavoro di ricerca condotto negli ultimi sette anni e partito nel 2016 con The Facebook Algorithmic Factory. Il progetto, come nel caso di Paglen, nasce a seguito delle rivelazioni di Snowden ed esplora le dinamiche immateriali alla base del funzionamento delle principali piattaforme di social network, con particolare attenzione ai processi di sfruttamento delle risorse lavorative e all’impiego di strutture di sorveglianza. Attraverso questa analisi, Joler identifica le nuove forme del controllo territoriale che attraversano le reti informatiche.
Secondo lo stesso artista, «la mappa dell’impero algoritmico è simile nel dettaglio ad alcune delle mappe dell’antichità»: proprio come queste ultime, essa si fonda su evidenti asimmetrie di potere. In Anatomy of AI System, Joler collabora con Kate Crawford, tra le maggiori ricercatrici nell’ambito dell’intelligenza artificiale, alla realizzazione di una cartografia che, proprio come un sistema anatomico dettagliato, analizza il processo produttivo alla base della realizzazione di un assistente vocale come Alexa. All’interno di questo complesso sistema, infrastrutture ambientali e umane contribuiscono alla produzione di quello che, rubando una nota definizione di Timothy Morton, potremmo definire un iperoggetto di cui proprio l’oggetto finale, il device, non è che la punta di un iceberg. Secondo Daphne Dragona, autrice della prefazione Black Box Cartography. A critical cartography of the internet and beyond (recentemente edita da Krisis Publishing e che raccoglie tutti i principali progetti visivi e testuali di Joler), Anatomy of AI System spinge la ricerca dell’artista alle sue estreme conseguenze, chiedendosi in particolare: «cosa succede quando un utente è sia una risorsa, che un lavoratore e un produttore allo stesso tempo»?
La stessa domanda riecheggia in New Extractivism, ultima ricerca di Joler, una mappa piuttosto articolata che usa l’espediente dell’allegoria e del simbolismo per esplorare il complesso sistema di estrazione dei dati che, secondo l’artista, è ascrivibile a un nuovo colonialismo planetario. Andando avanti con il percorso cartografico, Joler acquisisce un linguaggio più autonomo, meno analitico e più poetico. Ogni allegoria contribuisce alla realizzazione di una più grande macchina simbolica. Tra le diverse allegorie, una che risulta di chiara evidenza è quella denominata Platocticon, una struttura ispirata alla nota architettura di sorveglianza, il panopticon, che allude al mito della caverna di Platone, dove però, al posto delle ombre dei carcerieri, ci sono le proiezioni dei feed delle nostre piattaforme social. Il Platocticon è il cuore della macchina del capitalismo cognitivo, una struttura articolata in cui l’individuo è al contempo spettatore, produttore di contenuti e oggetto dell’estrazione dei dati. Attraverso la cartografia, Joler, come molti altri artisti, conduce un’indagine materialista volta a dare visibilità all’invisibile, nel tentativo di tradurre in forme e simboli l’evidenza dei dati. Se oggi la conquista dello spazio non è più esclusivo dominio della geografia, compito degli aspiranti cartografi è la definizione di nuovi spazi e di nuovi percorsi in grado di far luce nell’oscurità computazionale.